giovedì 30 settembre 2021

L’origine del linguaggio per riflettere sulla trascendenza dell’uomo

S’intitola L’alba del linguaggio. Come e perché i Sapiens hanno iniziato a parlare (Ponte alle grazie, 2019), l’interessante libro dello studioso svedese Sverker Johansson, un singolare fisico linguista che, in maniera divulgativa e fluida, fa il punto della situazione sugli studi attuali. Incuriosito dall’argomento e invogliato dall’accattivante copertina, l’ho comprato e letto in questi giorni trovandolo utile per alcuni spunti di riflessione. La prospettiva del saggio è, inutile dirlo, darwiniana e materialista, essendo l’uomo considerato nella sua dimensione evolutiva che lo rende in poche parole semplicemente una “scimmia parlante”, sebbene di gran lunga differente rispetto ai suoi parenti biologici più vicini. Ma questo non inficia gli stimoli intellettuali che se ne possono trarre. Il materialismo scientifico, che di per sé è un’ideologia che tende a scartare, senza prove di alcun tipo, interi universi di sapere e di conoscenza, può risultare a volte una base di partenza degna di nota, se non altro, per i dati “grezzi”, sperimentali e concreti che è in grado di offrire. Chiaramente il cattolico non deve farsi condizionare dai presunti “dati di fatto” della scienza, ma non può nemmeno trincerarsi in un castello d’avorio, chiuso e al sicuro, pieno di convinzioni che non comunicano con il contesto attuale, né vengono spiegate e rese plausibili. Questo sarebbe un fideismo, mentre la fede, per sua natura, è una circolarità virtuosa con la ragione. E dunque, l’imbeccata che il libro di Johanssonn ci offre è preziosa. Gli studi sul mondo animale, troppo spesso sottovalutati dai cristiani, magari impauriti dalle possibili conseguenze, sono in realtà molto affascinanti. Si viene a sapere delle strepitose abilità comunicative delle specie più varie, dai pappagalli ai delfini, dai calamari agli scimpanzé. Su questi ultimi le ricerche in laboratorio hanno mostrato specifiche predisposizioni per l’apprendimento di un linguaggio complesso, cosa che Johansson utilizza per confermare la propria soluzione del problema. L’origine della parola umana sarebbe un processo evolutivo avvenuto gradualmente per tappe, delle quali si possono cogliere i resti nelle altre specie di primati rimasti per così dire indietro rispetto a noi. La differenza è solamente, a detta dell’autore, quantitativa e non qualitativa. Ovvero, ciò che separa l’uomo dagli animali non è la capacità di ciò che noi chiamiamo parlare, visto che gli animali, e in particolare le scimmie, sono dotate di sistemi comunicativi complessi e articolati, ma soltanto la quantità di contenuti che i Sapiens riescono a “elaborare” e trasmettersi. Si vede chiaramente qui l’ombra dell’ultimo Darwin, quello più ideologico e materialista. Johansson, recuperando studi degli anni Sessanta del XIX secolo, espone una serie di caratteristiche che si rintracciano episodicamente nei sistemi di comunicazione degli esseri viventi, ma che il linguaggio umano possiede tutte. Una di queste caratteristiche, chiamata “distanziamento”, si riferisce alla capacità di comunicare concetti che non sono presenti nel momento e nel luogo in cui ci si trova. “La comunicazione fra animali – scrive l’autore – è generalmente ‘diadica’, perché coinvolge soltanto il mittente e il destinatario del linguaggio, senza riferirsi a terze parti o ad altro che esuli dagli individui direttamente interessati. Quella umana, invece, è ‘triadica’, perché spessissimo riguarda qualcosa di esterno ai due interlocutori”. Questo elemento mi sembra il punto focale di tutto il problema. L’uomo, a differenza di tutte le specie viventi su questo pianeta, è capace di esulare dall’hic et nunc, dal qui e ora di uno scambio comunicativo. Tale caratteristica è precisamente ciò a cui si riferisce la teologia quando parla della trascendenza umana, quella capacità metafisica che ci consente di andare letteralmente al di là del fisico, del bisogno immediato, del puramente materiale e del contingente. Su questo punto la fede può ben articolare la propria riflessione. Infatti, qual è il massimo di questa “triadicità”, di questo distanziamento? Qual è la parola umana che nessuna specie animale potrebbe mai apprendere? Ci ho pensato a fondo e sono arrivato alla conclusione che chiaramente questa parola è Dio, concetto che esprime il massimo della trascendenza, il “totalmente Altro”, per dirla con un’espressione famosa di Rudolph Otto, dal qui e ora della nostra esistenza. Ma bisogna sottolineare bene che si tratta di una rottura rispetto al mondo animale, altro che di una differenza di grado! Qui la scienza deve lasciare spazio alla teologia. Infatti non stiamo considerando un’abilità nel saper trasmettere informazioni su molte più cose che riguardano la nostra sopravvivenza materiale, ma di un salto radicale e incolmabile che concerne il tipo di cose delle quali noi parliamo e che ci proiettano ben al fuori di questo ambito puramente fisico e biologico. A tal proposito mi viene in mente la famosa prova ontologica di Sant’Anselmo d’Aosta che definì Dio “ciò di cui non si può pensare il maggiore”, ovvero il massimo della trascendenza, la nostra chiamata all’eternità, al compimento spirituale della vita. Preziosi spunti, dunque, si possono trarre dalla lettura di questo volume, per quanto ancorato a una prospettiva chiaramente evoluzionista. Basta far girare un po’ il cervello, come in copertina...