domenica 25 febbraio 2018

Verso quale sinodalità?

Un dossier pubblicato sul numero di febbraio di Vita Pastorale, storica rivista della Chiesa italiana, ha ridato slancio al dibattito sulla sinodalità invocato da Papa Francesco, che nelľottobre 2015 parlò  di una Chiesa “costitutivamente sinodale”. Il sinodo dei vescovi è stato al centro dell’attenzione mediatica nei due round sulla famiglia, nei quali molte cose hanno funzionato, altre un po’ meno. Nel dossier di Vita Pastorale il tema sollevato è però quello di una più incisiva vita sinodale della Chiesa che produca anche “un ripensamento dell’esercizio petrino”.
In dettaglio, viene auspicato l’abbandono del modello ecclesiologico del Vaticano I, “costruito sull’assolutizzazione del ruolo, che è stato possibile a prezzo di molte decurtazioni della communio: le Chiese ridotte a circoscrizioni territoriali; i vescovi ridotti a funzionari del Papa; la centralizzazione romana, capace di controllare e determinare fin nei dettagli la vita di tutta la Chiesa”. Questa analisi corrisponde alla verità storica, ma ha un limite. A costo di essere un tantino “storicista”, faccio notare come l'ecclesiologia del Vaticano I sia la risultante di un ben determinato processo storico, che ha il suo inizio con la nascita dello Stato moderno e il positivismo giuridico ad esso connesso. A partire dalla Rivoluzione Francese, la Chiesa dovette ingaggiare una battaglia senza eguali contro lo Stato, che intendeva risucchiarla nelle proprie strutture e controllarla come se fosse un dipartimento interno (un po’ come avviene oggi in Cina con la Chiesa Patriottica). Per reazione e autodifesa, prese sempre più il sopravvento il paradigma ecclesiale della “societas perfecta”, che poi sarebbe entrato nel Codice di diritto canonico del 1917. L’aggettivo “perfetta”, che tanto ha fatto storcere il naso in seguito, non intendeva essere una forma di trionfalismo “barocco”, ma una nozione giuridica ben precisa, che opponeva alla sovranità dello Stato-nazione, la pari sovranità della Chiesa, pienamente autonoma nella propria sfera. La scelta ebbe i suoi frutti, perché in questo modo la Chiesa riuscì a sopravvivere e a far valere i propri diritti. In alcuni paesi questo aspetto è stato affermato nella maniera più solenne possibile. È il caso della Costituzione Italiana che, nell’articolo 7, riconosce: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. L’importanza di questa affermazione non viene spesso sottolineata a dovere. Vero è che parallelamente al modello della società perfetta si è affermato un deciso accentramento della Catholica intorno alla Chiesa di Roma e al Papato. Nei primi secoli al vescovo di Roma veniva riconosciuto un primato tutto particolare, che metteva più in risalto la koinonia, la comunione, come ha scritto Ratzinger, di “comunità eucaristiche ed eucaristicamente comunicanti tra di loro”. Roma era vista come la Chiesa che presiedeva nella carità (stupenda definizione di Ignazio di Antiochia), e giuridicamente funzionava un po’ come l’ultimo e insindacabile grado di appello in caso di gravi dissidi dottrinali o disciplinari tra le Chiese dell’ecumene. Ovviamente questa situazione andò in frantumi con lo scisma d’Oriente, che non fece altro che sancire un allontanamento linguistico, culturale e politico tra i due “polmoni” dell’Europa cristiana. Di pari passo i pontefici, per fronteggiare le intromissioni del potere imperiale sulle nomine dei vescovi, cominciarono a scegliere di propria iniziativa i candidati. Nel medioevo e ancora nell'età moderna, i vescovi diocesani venivano eletti di norma dai capitoli della cattedrali, scelti tra i presbiteri del luogo, mentre progressivamente questa antica e importante competenza delle Chiese locali andò a perdersi, fino a quando il Papa si riservò di diritto la nomina di ogni vescovo (cosa che avvenne con il codice del 1917). Per tornare all’articolo di Vita Pastorale, si parla di un doppio sistema, “quello primaziale in Occidente e quello puramente sinodale in Oriente” che “hanno prodotto, da due logiche opposte, il medesimo risultato di impasse, che, bloccando il cammino, crea disorientamento e confusione”. Non sono d’accordo. Perché sì, i due modelli sono tra loro speculari, ma non vanno messi sullo stesso piatto. La Catholica conserva e ha sempre conservato in sé una vita sinodale, seppur a volte latente e non ben espressa, ma per motivi squisitamente storici e ambientali. L’accentramento papale ha giocato anzi un ruolo fondamentale per l’integrità della Chiesa in tempi difficili come il luteranesimo, lo Stato nazionale, il giuseppinismo, e così via (c’è chi dice che sia importante anche oggi al tempo della “società liquida” e relativista). Mentre da parte del mondo orientale, lo sviluppo della sinodalità è avvenuto a prezzo di un risucchio nelle strutture statali bizantine e di una non rassicurante tendenza alla frammentazione che continua ancora oggi in maniera vistosa. Il recente sinodo panortodosso è stato boicottato da Mosca a causa di una serie di problemi con il patriarcato di Costantinopoli (la sinodalità orientale in questo caso non ha funzionato poi così bene, nonostante il significato importante dell’iniziativa). A mio modo di vedere, dunque, è certamente positivo che in ambito cattolico si guardi al primo millennio e a un recupero della vita sinodale, che per troppo tempo è stata marginalizzata, ma tenendo bene in mente i contesti storici (che qualcosa devono pure insegnare), l'asimmetria tra modello primaziale e quello puramente "comunionale", oltre che l’assoluta importanza del primato di Pietro, che è garanzia di unità e fondamento della comune fede.