sabato 21 agosto 2021

Il cristiano e la paura dell’inferno. Riflessioni a margine della catechesi di Papa Francesco

“Come vivo io? Nella paura che se non faccio questo andrò all’inferno? O vivo anche con quella speranza, con quella gioia della gratuità della salvezza in Gesù Cristo?”. Nell’ultima catechesi del mercoledì Papa Francesco ha svolto un’interessantissima riflessione sulla lettera di San Paolo ai Galati e sul rapporto tra la Legge di Mosè e la giustificazione per mezzo di Gesù Cristo. Un tema ostico, da addetti ai lavori che cercherò di “divulgare” per quanto mi è possibile. Il nocciolo della questione investe in definitiva il rapporto tra l’uomo e Dio.

Prima della venuta di Cristo, la Bibbia ci dice che l’umanità era completamente allo sbando a causa al peccato originale, incattivita e senza possibilità di salvezza. Dio era sul punto di cancellare l’intera creazione, la Genesi afferma addirittura che si pentì di aver creato l’uomo, ma proprio sul punto di mettere in pratica questo proposito successe una cosa incredibile. Trovò che un vecchio di nome Noè e la sua famiglia avevano conservato qualcosa di buono. Non erano né dei superuomini né dei perfetti, ma la misericordia divina intravide che una briciola di bene era rimasta nei loro cuori. E allora Dio decise che si poteva ricominciare una nuova storia per la salvezza dell’intero genere umano, passando per Noè, e poi  Abramo e poi un piccolo popolo, Israele, con il quale siglare un patto di “educazione”, la Legge di Mosè appunto, volta a riavvicinare progressivamente l’umanità a Dio, quel vertice che era stato perduto alle origini. E su questo aspetto Papa Francesco ha detto: “La Torah, cioè la Legge, era stata un atto di magnanimità da parte di Dio nei confronti del suo popolo. Dopo l’elezione di Abramo, l’altro atto grande è stata la Legge: fissare la strada per andare avanti. Certamente aveva avuto delle funzioni restrittive, ma nello stesso tempo aveva protetto il popolo, lo aveva educato, disciplinato e sostenuto nella sua debolezza”. Il punto però della questione è che la Legge, come aveva predicato Cristo e come capì San Paolo, non toglieva il peccato dal cuore dell’uomo, soltanto lo aiutava a riconoscerne gli amari frutti nella propria vita, “come una specie di custodia preventiva”, continua il Papa. Essere “sotto la Legge” secondo il lessico paolino significava in poche parole trovarsi ancora nella condizione di peccato, mentre la vera salvezza è giunta all’umanità grazie ad un atto di misericordia gratuita di Dio, l’incarnazione del suo Figlio che ha pagato, lui Innocente, per il peccato di tutti. Accogliendo questa straripante occasione di grazia, credendo in Cristo, l’uomo può finalmente liberarsi del peccato, giustificarsi agli occhi di Dio. Non sono le opere dell’uomo valutate con il metro della Legge, a rendere “giusto” l’uomo di fronte a Dio, ma il suo cuore, la sua postura esistenziale, il suo aprirsi alla salvezza gratuita donatagli dal Messia. Si badi bene che San Paolo, dicendo queste cose nelle sinagoghe della diaspora del I secolo, veniva continuamente preso a calci e rischiava di brutto la vita, perché un tale concetto era per gli ebrei un’eresia bella e buona (come del resto la predicazione di Cristo). Al termine della sua catechesi il papa ci ha quindi fatto una domanda impegnativa: “Ci farà bene chiederci se viviamo ancora nel periodo in cui abbiamo bisogno della Legge, o se invece siamo ben consapevoli di aver ricevuto la grazia di essere diventati figli di Dio per vivere nell’amore. Come vivo io? Nella paura che se non faccio questo andrò all’inferno? O vivo anche con quella speranza, con quella gioia della gratuità della salvezza in Gesù Cristo? È una bella domanda”. Sì, è proprio una bella domanda! A volte forse, nella predicazione spicciola, la vera novità del cristianesimo è stata depotenziata per via di un’impostazione etico-centrica. Come scrissi in un precedente post, nelle epoche del cristianesimo di massa, dove l’atto di fede era per così dire scontato ed ereditario, il concetto paolino risultava meno evidente, l’edificio cristiano sviluppava giustamente diversi aspetti della morale, piuttosto che spingere su una predicazione di tipo esistenziale, diremmo noi oggi. Nella nostra epoca appunto, in piena secolarizzazione e declino del cattolicesimo di popolo, proprio l’atto di fede personale, professato come scelta libera dinanzi al Signore, sta diventando centrale nel percorso di appartenenza alla Chiesa, e questo aspetto  ci riavvicina molto alle lunghezze d’onda paoline, mentre la dimensione etica ne diventa una parte per così dire “subordinata”, interiore. Papa Francesco, nel suo lungo e ricco magistero, ci sta dicendo proprio questo. Vivere nella paura dell’inferno è un po’ come riaggrapparsi a quella Legge, quella visione di Dio da codice penale, per cui l’Eterno, come ha detto Bergoglio tempo fa, sarebbe un “Carabiniere” pronto a punire qualsiasi errore e non un Oceano di Amore misericordioso. Assurdo. Eppure si potrebbe dire che quest’errore sia la malattia più diffusa nella vita spirituale. Dietro l’apparente ossequio per i precetti divini e le norme ecclesiastiche, rischia a volte di nascondersi una relazione con Dio sterile e fredda. Addirittura la confessione può diventare una routine, trattando Cristo come un distributore automatico di perdono, per cui, detti quei tre o quattro peccati una volta al mese, la vita riprende il suo corso e non ha il sapore di un rapporto autentico con Lui in ogni momento della giornata. Vivere nella paura di andare all’inferno è poi uno degli argomenti preferiti dagli atei per sbeffeggiare noi cristiani. Macché! Abbiamo il tremore, sì, dinanzi al Sole di giustizia, ci facciamo schifo, sì, per il nostro nulla ammantato di orgoglio, ma conosciamo bene il Cuore del nostro Signore, sappiamo che quel Cuore è stato trafitto sulla croce proprio per darci speranza, non per incuterci terrore. “Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12,47), ci ha detto Gesù. Eppure le radici di tali convinzioni intellettuali possono essere in realtà anche molto raffinate. Ci ho riflettuto e mi è venuta in mente la famosa scommessa di Pascal, secondo cui la fede in definitiva sarebbe uno scommettere tra Dio e il nulla. Solo al termine della vita, dopo la morte, sapremo se abbiamo puntato bene le nostre fiches. Mi permetto di contraddire il (per altri versi) fenomenale Blaise, il castigatore di Cartesio (un altro che si diede la zappa sui piedi, ma questa è un’altra storia). Così impostata, la vita spirituale del credente appare sin troppo arida, razionale, manca di quel lato esperienziale, di quella relazione vera e mi azzardo a dire “concreta”. Dio non lo posso toccare, come vorrebbero i positivisti di oggi, ma lo posso sentire e “viverlo” in ogni momento, principalmente nei sacramenti, ma anche solo entrando in una bella chiesa, o pregando il rosario, o leggendo la Bibbia, o ammirando un panorama, o incontrando una persona, o ascoltando un brano di  musica. La vita del cristiano è pienezza di un incontro con Dio che non finisce mai. Certamente, anche noi abbiamo le nostri “notti oscure”, per carità, ma sappiamo riconoscere il buio proprio perché i nostri occhi cercano e desiderano il sole. E poi, sono del parere che il paradiso o l’inferno in realtà comincino già su questa terra. La sapienza dei grandi ordini monastici, benedettini in testa, era proprio quella di anticipare il giardino dell’Eden quaggiù, spronando l’uomo a faticare sulla terra “a contatto” con Dio. Il concetto di clausura e di cura del creato era alla base dell’hortus conclusus, quello splendido chiostro pieno di piante che regalava bellezza e slancio spirituale, un piccolo anticipo di paradiso. Tutto ciò che la civiltà attuale può mettere in atto è invece il rave party, un concentrato di musica e alcol ingurgitato a ettolitri per giorni fino allo stordimento. L’inferno appunto. Insomma, come conclude Papa Francesco: “I Comandamenti si devono osservare, ma non ci danno la giustizia; c’è la gratuità di Gesù Cristo, l’incontro con Gesù Cristo che ci giustifica gratuitamente. Il merito della fede è ricevere Gesù. L’unico merito: aprire il cuore. E che cosa facciamo con i Comandamenti? Dobbiamo osservarli, ma come aiuto all’incontro con Gesù Cristo”.