28 luglio 1915. Sembra strano ma il
Magistero dei Papi sull'Europa non comincia con i Trattati di Roma
del 1957 ma, esattamente un secolo fa, con un'esortazione di Papa
Benedetto XV indirizzata ai popoli belligeranti e ai governi, proprio
nel momento in cui il vecchio continente è in preda a una
devastazione totale. “È sangue fraterno – scrive Benedetto XV
– quello che si versa su la terra e sui mari! Le più belle regioni
d'Europa, di questo giardino del mondo, sono seminate di cadaveri e
di ruine!”. In questo breve messaggio c'è già il nocciolo di un
problema che tutti i pontefici successivi considereranno cruciale.
Della Chiesa, il Papa passato alla storia per “l'inutile strage”,
termine con il quale ha definito la prima guerra mondiale, intende
proporre un cessate il fuoco e per farlo utilizza un'espressione
molto particolare. Scrive che l'Europa, il giardino del mondo, è
diventata un ammasso di cadaveri e di macerie. Il vibrante appello è
percorso da una specie di nostalgia. C'è stato un tempo in cui i
popoli non erano separati da trincee e fili spinati, ma si
riconoscevano veramente fratelli in nome dell'unica fede cristiana, e
quindi il sangue versato da milioni di giovani mandati al macello dai
loro ufficiali è una pazzia. La cosa interessante è che Benedetto
XV capisce subito una cosa fondamentale. E cioè che la prima guerra
mondiale, in sostanza, è una guerra civile europea combattuta su
scala globale, causata dall'aver perso Dio dall'orizzonte comune. In
seguito, con la seconda guerra mondiale, si capirà che Dio è stato
in realtà sostituito con i demoni del nazionalismo, della politica
di potenza, dell'imperialismo, del razzismo e delle ideologie.
All'origine del disastro, in ogni modo, sta una perdita fondamentale,
si direbbe una nuova colpa consumata nel “giardino” europeo,
quasi un nuovo Eden. Ventiquattro anni dopo Pio XII,
nell'enciclica Summus Pontificatus, deve constatare che il
continente attraversa una nuova “ora tenebrosa”, un conflitto
ancora più lacerante. E indica senza esitazione le causa, “la
tanto vantata laicizzazione della società, che ha fatto sempre più
rapidi progressi, sottraendo l'uomo, la famiglia e lo Stato
dall'influsso benefico e rigeneratore dell'idea di Dio e
dell'insegnamento della Chiesa”. Pacelli è un europeista convinto.
Terminata la guerra, non manca mai di incoraggiare il sogno di
un'Europa unita attraverso i suoi celebri radiomessaggi. E non manca
mai di far notare agli addetti ai lavori che le fondamenta della
nuova costruzione, sia essa una federazione o qualunque altra cosa,
devono essere cristiane. Prima di tutto si deve parlare di ideali, e
poi di politica. Negli anni Cinquanta segue con vivo interesse il
dibattito e in più di un'occasione invia la sua benedizione ai
congressisti che di volta in volta si radunano per discutere di
Europa. Tuttavia, già con la nascita della CECA, comincia a
manifestare tutta la sua delusione. “Nessun materialismo –
ammonisce – è stato mai un mezzo idoneo per instaurare la pace,
essendo questa innanzitutto un atteggiamento dello spirito”. Si
tratta del primo affiorare di una polemica destinata ad acutizzarsi
sempre più negli anni successivi. E infatti, dopo le dichiarazioni
di Giovanni XXIII ai delegati dell'Assemblea Parlamentare
Europea e Paesi d'oltremare associati alla CEE del 26 gennaio 1961,
unico intervento di Roncalli in materia europea, Paolo VI
ripropone in diverse occasioni il concetto chiave. Nel 1963, ad
esempio, afferma che la vita del continente è pervasa ormai “da
una rete di rapporti tecnici ed economici, che non domanda di meglio
che di essere vivificata da uno stesso spirito”. Ancora una volta
torna il problema fondamentale ed evidentemente avvertito con urgenza
dalla Chiesa, quello cioè di dare alla costruzione europea un
respiro spirituale. Il fatto che Montini, nel '64, proclami San
Benedetto Patrono d'Europa (breve apostolico Pacis nuntius)
sta a dimostrare che la polemica riguarda esattamente l'ossatura o
per meglio dire il DNA del sogno europeo. Per Paolo VI, così come
per Pio XII, per Giovanni XXIII e per Benedetto XV, non c'è Europa
senza cristianesimo. La strada dei trattati commerciali, dichiara
Montini a un gruppo di congressisti nel 1965, è certamente da
incoraggiare, ma da sola non basta. Il crollo del Muro di Berlino e
l'irrompere dei popoli dell'est caratterizzano il pontificato di
Giovanni Paolo II, che certamente gioca un ruolo cruciale per
liberare la sua Polonia dal tallone sovietico. Il sassolino che cade
diventa una valanga. Il muro crolla l'8 novembre 1989, guarda caso,
il giorno della dedicazione della Basilica lateranense, la cattedrale
del Papa, un edificio che, nonostante tutto, regge. La bandiera rossa
viene ammainata il 25 dicembre 1991 dal Cremlino (data che si
commenta da sé). Wojtyla ha una sua teologia della storia, ha
vissuto sulla propria pelle l'orrore del comunismo e spera che il
crollo dell'URSS serva da lezione. “Il momento è propizio – dice
al corpo diplomatico della Santa Sede il 13 gennaio 1990 – per
raccogliere le pietre dei muri abbattuti e costruire insieme la casa
comune”. Ha in mente un continente spirituale, un'“Europa dello
Spirito” che spazia dall'Atlantico agli Urali, che riceve nuova
linfa dal cristianesimo. “L'Europa che ho in mente – spiega – è
un'unità politica, anzi spirituale, nella quale i politici cristiani
di tutti i paesi agiscono nella coscienza delle ricchezze umane che
la fede porta con sé: uomini e donne impegnati a far diventare
fecondi tali valori, ponendosi al servizio di tutti per un'Europa
dell'uomo, sul quale splenda il volto di Dio”. L'allargamento
dell'UE ai popoli della cortina di ferro si traduce però in un
contagioso, dilagante materialismo. E allora Giovanni Paolo II tuona.
A Wloclawek, una cittadina polacca sul fiume Vistola, pronuncia un
discorso memorabile il 7 giugno 1991, nel quale attacca il falso
europeismo che seduce con i miti del consumo e del godimento.
L'ultima, grande battaglia il Papa polacco la combatte con le poche
forze che gli rimangono per la costituzione cristofobica firmata a
Roma nel 2004, destinata peraltro al totale fallimento nel giro di
pochi anni. “La marginalizzazione delle religioni, che hanno
contribuito ed ancora contribuiscono alla cultura e all'umanesimo dei
quali l'Europa è legittimamente fiera – osserva – mi sembra
essere al tempo stesso un'ingiustizia e un errore di prospettiva”.
Nell'esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Europa (1999)
aveva inoltre parlato di “apostasia silenziosa” riferendosi ad
una società ormai sull'orlo della scristianizzazione. Benedetto
XVI prosegue su queste lunghezze d'onda, denuncia il laicismo
aggressivo e si dedica anche a ricucire un dialogo schietto con le
filosofie relativistiche del vecchio continente, che deformano non
poco la vita politica. All'Università di Ratisbona tiene una
cruciale lectio magistralis (12 settembre 2006) nella quale
auspica che la ragione torni ad essere fecondata dalla fede
cristiana. Visitando il Parlamento tedesco lancia un appello: “La
cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene
e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione
filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice
incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella
consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel
riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo,
questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali
è nostro compito in questo momento storico”.