martedì 4 novembre 2014

Benedetto XVI rompe il silenzio in un messaggio all’Urbaniana. “L’albero è diventato secco, ma Cristo attende i popoli”


Lo scorso 21 ottobre l’aula magna della Pontificia Università Urbaniana è stata intitolata a Benedetto XVI e per l’occasione il Papa emerito ha inviato una riflessione molto densa, quasi una piccola “lectio magistralis” centrata sul tema della missio ad gentes. “Davvero la missione è ancora attuale?  - si è chiesto Ratzinger - Non sarebbe più appropriato incontrarsi nel dialogo tra le religioni e servire insieme la causa della pace nel mondo?”. Il documento, che è stato reso noto con un certo ritardo prima dall’agenzia kath.net e dopo dallo stesso ateneo in versione italiana e tedesca, è passato incredibilmente nell’indifferenza generale. Eppure ci offre uno spaccato del pensiero di Joseph Ratzinger, un pensiero fluido, articolato, consequenziale, ragionato come ai tempi del pontificato. E, last but not least, vigoroso.
Ratzinger riprende sostanzialmente una vena acquifera del suo magistero petrino (oltre che leitmotiv degli anni in cui era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede)  domandandosi se l’annuncio di Cristo sia ancora possibile e perseguibile in un contesto di relativismo culturale e di ecumenismo impacciato. L’idea oggi dominante che le religioni storiche siano “varianti di un’unica e medesima realtà”, rischia infatti di far scivolare il concetto stesso di evangelizzazione su una buccia di banana. Se la verità non esiste e le religioni sono in definitiva equivalenti, allora la Chiesa apparentemente non ha alcun diritto di esclusiva sulle altre “fedi” mondiali. E qui Ratzinger è precisissimo: “Questa rinuncia alla verità – scrive – sembra realistica e utile alla pace fra le religioni nel mondo. E tuttavia essa è letale per la fede. Infatti, la fede perde il suo carattere vincolante e la sua serietà, se tutto si riduce a simboli in fondo interscambiabili, capaci di rimandare solo da lontano all’inaccessibile mistero del divino”. Il Papa emerito propone due blocchi di riflessione per sviscerare meglio l’argomento. Nel primo propone l’evangelizzazione non come un processo statico dall’alto in basso, ma come un movimento, quasi una tettonica religiosa delle placche. Afferma infatti che “le religioni sono in movimento a livello storico, così come sono in movimento i popoli e le culture” e che esistono delle religioni in attesa di conoscere Cristo. “Noi, come cristiani, - sostiene - siamo convinti che, nel silenzio, esse attendano l’incontro con Gesù Cristo, la luce che viene da lui, che sola può condurle completamente alla loro verità. E Cristo attende loro. L’incontro con lui non è l’irruzione di un estraneo che distrugge la loro propria cultura e la loro propria storia. È, invece, l’ingresso in qualcosa di più grande, verso cui esse sono in cammino. Perciò quest’incontro è sempre, a un tempo, purificazione e maturazione. Peraltro, l’incontro è sempre reciproco. Cristo attende la loro storia, la loro saggezza, la loro visione delle cose”. Si tratta di un modo di intendere la missione che Ratzinger ha sviluppato anni orsono in diverse conferenze, sviluppando in maniera molto personale e direi anche originale il concetto conciliare di “logos spermaticos” (“semi della verità”), in base al quale la Chiesa è chiamata a inculturare il Vangelo e a discernere ciò che è ridondanza storica da ciò che è il cuore della fede. E riaffiora anche un’analisi che ci fa un po’ rabbrividire ma che va al nocciolo del problema.  Nei paesi storicamente cristiani, constata il Papa emerito, i “rami del grande albero cresciuto dal granello di senape del Vangelo sono divenuti secchi e cadono a terra”. È un’immagine indubbiamente forte che sembra voler spegnere le false illusioni di un ritorno della cristianità di massa, magari ancora oggi rimpianta da qualcuno e portata avanti come uno spaventapasseri. Il secondo blocco di riflessioni suona come una severa critica al tecnicismo imperante e al monodimensionalismo imposto dalle filosofie piatte. “L’uomo – scrive - diventa più piccolo, non più grande, quando non c’è più spazio per un ethos che, in base alla sua autentica natura, rinvia oltre il pragmatismo, quando non c’è più spazio per lo sguardo rivolto a Dio. Il luogo proprio della ragione positivista è nei grandi campi d’azione della tecnica e dell’economia, e tuttavia essa non esaurisce tutto l’umano”. Ratzinger infine propone un’altra riflessione per giustificare la missione, e cioè la gioia di aver incontrato il Signore che, in quanto evento esistenziale, non può essere tenuta a freno e ha bisogno di essere comunicata a tutti. E quest’ultimo filone aureo del pensiero ratzingeriano mi sembra in perfetta sintonia con l’ecclesiologia di Jorge Mario Bergoglio e con la sua idea di missione che, a detta di qualcuno, sarebbe una rottura con il suo immediato predecessore. Francesco invece si è appropriato del concetto di evangelizzazione per attrazione, un concetto proposto da Benedetto XVI nella sua prima enciclica e poi ripetuto moltissime volte (si legga per esempio il recente discorso di Papa Bergoglio all’episcopato coreano). Purtroppo in Italia ci sono intellettuali teocon e papisti a verso loro che ignorano questa profonda connessione tra i due pontificati.