Nel 1911 il poeta tedesco Herman Hesse era in viaggio in India, terra dove il padre e il nonno avevano speso gran parte della loro vita come missionari protestanti. Ma lui non voleva continuare la tradizione di famiglia. Avvertiva anzi drammaticamente, sulla propria pelle, quel declino dell'occidente teorizzato in quegli anni da intellettuali come Spengler e Weber, che signficava una drastica crisi di senso e di certezze della civiltà europea.
Con quel viaggio lo scrittore invertì la direzione di quello che era stato fino ad allora il flusso delle relazioni tra l'Europa e il mondo, fatto non solo di scambi commerciali e di imprese coloniali ma anche e soprattutto di evangelizzazione, inaugurando quell'interesse per la cultura e le religioni orientali che ha conosciuto un crescente boom di attenzione, al punto da divenire un fenomeno di massa dagli anni della contestazione giovanile fino a oggi. Il futuro autore del Siddharta scrisse alcune poesie sul tema del viaggio che secondo me esprimono benissimo questo cambio epocale dell'uomo europeo, da quel momento diventato cercatore disperato di un senso. Annotò Hesse sul diario: “In vero più lieve è il tormento di andare, / più lieve che trovar pace nelle valli di casa, / dove tra le gioie e le solite cure / solo il saggio sa costruire la propria felicità. /Per me è meglio cercare e mai trovare / che legarmi, caldo e stretto, a quanto mi è accanto, / perché anche nel bene, su questa terra / sono solo ospite, mai cittadino” (Di fronte all'Africa). In un'altra occasione si lasciò affascinare da un'effimera teofania nel contemplare il paesaggio desertico: “Questa terra dannata non conosce il ristoro della pioggia. / Ma laggiù sta sospesa, tutta sola, / una pacifica nuvola: / Dio l'ha posta lì per noi, / affinché non siamo più a lungo senza conforto / e dobbiamo soffrire soli su questa terra” (Sera sul Mar Rosso). Deluso dall'India, eppure convinto che la sola cosa possibile fosse la vita dell'errabondo, scrisse dei versi tragici e pacati: “Per me non c'è pace né orbita stellare, / io sono l'onda, la barca oscillante, / che ogni tempesta scuote nel profondo, / che ogni soffio ferisce e sconvolge. / Così sono giunto fino ai tropici remoti, / solo con me stesso e torno dal viaggio / con la mia vecchia smania vagabonda, /avido di dolore e piacere della vita, disposto a nuovi giochi e a nuove lotte, / non guarito da tutte le avventure. / Della terra sono figlio, non delle stelle, / d'animo inquieto, mosso da ogni vento, / mi culla il mare e mi desta la tempesta, / mi conforta la luce e mi spaventa la notte” (Davanti a Colombo). Ciò che gli storici cercano di studiare e che i filosofi della modernità, i maestri del sospetto, hanno costruito come un monumento del pensiero, a volte la poesia sa condensare in pochissimi versi. Eccolo, dunque, nelle parole commosse di Hesse, quasi una rivelazione inconsapevole del proprio destino, quest'uomo europeo inquieto e spaesato, che cerca una risposta da dare al suo cuore in viaggio, intuendo però drammaticamente, nell'angolo più remoto della sua esistenza, che l'impresa è al limite delle sue forze. Anzi, impossibile con le sole sue forze.