martedì 15 gennaio 2019

La lettera "Humana Communitas" di Papa Francesco fa il punto della situazione sulla vita umana. E indica una nuova strategia di evangelizzazione.

È stata resa nota poche ore fa la lettera Humana Communitas di Papa Francesco per i venticinque anni di attività della Pontificia Accademia della Vita. Il testo si compone di un esordio e di 13 numeri, con una struttura a “sezioni” che appaiono ben delineate nel corso della lettura. C'è un'importante premessa di ordine antropologico, quindi una parte centrale sull'analisi del contesto odierno, poi una parte ecclesiologica, che contiene indicazioni sulla strategia da seguire, infine un'invocazione conclusiva.
Le citazioni sono poche, com'è nello stile di Papa Francesco. Quelle bibliche sono tratte perlopiù dalla Genesi e dalle Lettere di San Paolo. Fra quelle magisteriali figurano il concilio, interventi di San Paolo VI, San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e lo stesso Francesco. Anche se l'ispirazione più importante è data a mio avviso dalle encicliche sociali di San Giovanni XXIII, nelle quali il tema della persona umana è trattato all'interno del tema della comunità umana nel suo insieme. Questo aspetto risalta tanto nel ritolo della lettera, quanto nei numerosi riferimenti alla "Casa comune" tratti da quella magna charta bergogliana che è la Laudato si', e inoltre nella scelta di presentare l'umanesimo cristiano come “fraterno e solidale” (e non "integrale e solidale" come in genere si legge nei testi ufficiali della Chiesa). C'è una sottolineatura forte dell'unità di destini, di risorse, di ricchezze e di problemi del genere umano nell'ora presente. Ma più ancora una visione originante, una teologia dall'alto che getta luce su tutta la riflessione. Infatti Papa Francesco scrive che la comunità umana è "il sogno di Dio fin da prima della creazione del mondo" e che esiste un legame fra tutti gli uomini,  fatto di una "comune discendenza dalla creazione e dall’amore di Dio". La scelta è quella di ripartire dalla vera identità dell'uomo, fatto, come dice la Genesi, a "immagine e somiglianza" di Dio. Ogni persona porta dentro di sè in ogni momento della propria esistenza questo sigillo soprannaturale. L'uomo cioè, ogni uomo, ha una dignità trascendente, che non deriva dalla condizione economica, dal prestigio sociale, dal suo stato di salute e così via, ma da Dio stesso che lo fa esistere. Ed è quindi questa l'identità nativa che nessuno può mai togliere a ogni essere umano. "La fede cristiana – scrive infatti il Papa – confessa la generazione del Figlio come il mistero ineffabile dell’unità  eterna di 'far essere' e di 'voler bene' che sta nell’intimità di Dio Uno e Trino. Il rinnovato annuncio di questa trascurata rivelazione può aprire un capitolo nuovo nella storia della comunità e della cultura umane". Giustamente Papa Francesco osserva che questo tipo di impostazione appare trascurato. È Dio che “fa essere” l'uomo (e tutta la creazione, della quale l'uomo è il centro) perché all'inizio c'è un “voler bene” che nasce dall'amore intratrinitario del Padre per il Figlio generato. Questa bellissima lezione di antropologia teologica posta nell'incipit della lettera ne connota tutta la sua profondità. Aggiunge Papa Bergoglio: “In questo nostro tempo, la Chiesa è chiamata a rilanciare con forza l’umanesimo della vita che erompe da questa passione di Dio per la creatura umana. L’impegno a comprendere, promuovere e difendere la vita di ogni essere umano prende slancio da questo incondizionato amore di Dio”. L'analisi del contesto attuale affronta una serie di criticità. Distanze tra i popoli, “scisma” tra soggettività e comunità, ossessione del benessere individuale, difficoltà dell'istituto famigliare, nichilismo, aborto, avvilimento spirituale. “La tendenza ad anestetizzare questo profondo disagio, attraverso una cieca rincorsa al godimento materiale – continua il documento –, produce la malinconia di una vita che non trova destinazione all’altezza della sua qualità spirituale. Dobbiamo riconoscerlo: gli uomini e le donne del nostro tempo sono spesso demoralizzati e disorientati, senza visione. Siamo un po’ tutti ripiegati su noi stessi”. Qual è allora il compito della Chiesa? I passaggi cruciali sono due. Prima di tutto la comunità dei battezzati deve riaprire quell'orizzonte umanistico fondato teologicamente, per ridare acqua ad un uomo contemporaneo assetato più che mai di trascendenza e di verità, non cadendo nella tentazione di edulcorare questo specifico della fede, evitando cioè di stipulare “timidi aggiustamenti che non superano la logica del compromesso mondano”. In secondo luogo – e qui Bergoglio si fa grande interprete del Concilio – la Chiesa deve calare questa missione nell'ora attuale, che manifesta anche dei segnali positivi da non sottovalutare (diffondersi di una sensibilità contraria alla guerra e alla pena di morte, attenzione alla qualità della vita e all’ecologia). A questo punto il Papa argentino cala l'asso, per così dire, con un passaggio che intende offrire una strategia di lunga durata: “Dobbiamo anzitutto abitare la lingua e le storie degli uomini e delle donne del nostro tempo, inserendo l’annuncio evangelico nell’esperienza concreta, come il Concilio Vaticano II ci ha indicato autorevolmente. Per cogliere il senso della vita umana, l’esperienza a cui riferirsi è quella che si può riconoscere nella dinamica della generazione. Si eviterà così di ridurre la vita o a un concetto solamente biologico o a un universale astratto dalle relazioni e dalla storia. L’appartenenza originaria alla carne precede e rende possibile ogni ulteriore consapevolezza e riflessione, scongiurando la pretesa del soggetto di essere origine a sé stesso. Possiamo solo diventare consapevoli di essere in vita una volta che già l’abbiamo ricevuta, prima di ogni nostra intenzione e decisione”. E quindi bisogna evitare di parlare una lingua troppo alta, teologica (ferma restando la consapevolezza di un'antropologia che nasce dalla Rivelazione), o troppo bassa, materialistica o scientista, acquisendo dimestichezza con una lingua genuinamente umana, attenta a quei piccoli spazi di infinito che l'uomo contemporaneo vede aprirsi dentro di sé. Uno di questi è l'incapacità del soggetto di autodeterminarsi, già constatabile dal nascere in un qui e in un ora, che non esaurisce assolutamente la ricerca della vera origine e della meta definitiva. La lettera si conclude con l'invocazione di San Francesco, che seppe riconoscere fratelli e sorelle tutti gli uomini e tutte le creature (torna dunque anche nel finale il tema della fratellanza che ha attraversato la riflessione come un filo rosso) e l'augurio di una missione con le lampade piene di Spirito.