A volte il caos aiuta a fare ordine, fa vedere quello che prima non era chiaro. La crisi politica in cui l’Italia si dibatte da ormai tre mesi non è, o almeno non è solo, un problema italiano, ma riguarda direttamente il processo per cui si è lavorato negli ultimi 30 anni nel Vecchio Continente: l’unificazione dell’Europa a suon di trattati. Dopo la caduta del Muro di Berlino, la strada fu quella del mercato e dello spazio libero sempre più grande (Maastricht), fino alla moneta unica. Una strada che si fondava su un assioma ultraliberista: aprire e integrare le economie nazionali, far circolare le merci, i capitali e le persone, e tutto verrà di conseguenza.
In omaggio alla più liberale e (paradossalmente) marxiana delle convinzioni, oltre che alla più ingannatrice delle speranze. Certo, c’era la belle époque novecentesca, c’era la crescita economica, cominciava l’era di Internet, il “villaggio globale”, il turismo low cost. Trasformare quella “penisola” dell’Asia in una fantastica Disneyland degli affari e della bella vita… Qualcuno levò una voce di protesta. Il caso della Costituzione europea, approvata nel 2004, fu eclatante. Nel pieno di quell’euforia collettiva che animava una ristretta élite politica, il vecchio Giovanni Paolo II combatté la sua ultima, grande battaglia per ricordare che l’economia non bastava, e non sarebbe bastata, da sola, a costruire la Casa Comune. Nemmeno i cosiddetti diritti della persona, costruiti artificialmente e individualisticamente, potevano portare a granché di positivo. Papa Wojtyla amava parlare di un’“Europa dello Spirito”, una realtà di popoli, dell’ovest e dell’est, che sgorgava da una stessa sorgente, il Vangelo, matrice di unità, vera Costituzione di valori intoccabili e condivisi, e nella fede nella Trinità “foriera di autentica speranza per il continente”. Ovviamente gli “eurocrati” dissero di no, non si poteva citare Dio in un documento così solenne. Sapeva di medioevo. Il futuro sarebbe stato ben altro: indici di crescita economica sempre più su. Il resto era noia. Il vecchio Papa non nascose la sua delusione ma la sua battaglia rimane attualissima. Se anche l’Italia, storicamente il partner euro-ottimista per antonomasia, si mostra oggi tentata da governi ostili a Bruxelles (non solo quello laboriosamente in gestazione), la parabola discendente del processo di unificazione pare aver raggiunto il suo punto di caduta più basso. Dopo la Brexit (grande euroschiaffo madornale), un’Italexit? La “penisola asiatica” dopotutto non è quel luogo felice che gli Stati avevano progettato alla fine del XX secolo. Da anni l’UE è attraversata da scosse centrifughe, quelle sì, “medievali” (in Belgio e in Catalogna), marcia a due o tre o quattro velocità diverse, non riesce a pianificare una politica immigratoria condivisa (dall’Ungheria che mette il filo spinato all’Italia lasciata sola nel Mediterraneo) e si dibatte in uno stillicidio di segni meno dell’economica (al punto che è apparsa anche la deflazione). Il paradigma economicista sembra prendere decisamente il sopravvento sulla sovranità dei popoli, tanto che qualcuno auspica che la picchiata delle borse faccia ragionare i votanti (caso Oettinger fresco fresco). Quella strana “Cosa” che era stata costruita, oggi sembra andare in frantumi. Un paio di mesi fa l’Osservatorio Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa ha pronunciato la tanto temuta parola: fallimento. Nel suo IX Rapporto, uscito a marzo 2018 e intitolato “Europa. La fine delle illusioni”, si parla apertamente di errori nel progetto originario, di un’impostazione illuminista, giacobina e addirittura leninista che sta dando i suoi amari frutti.