Esattamente 147 anni fa si consumava a Roma una delle battaglie dottrinali più accese di sempre. Complice il caldo cocente che investì la Città Eterna, i 700 vescovi convenuti per il concilio furono trascinati in una discussione accanita che alla fine si risolse in un colpo di scena. Il Vaticano I era stato aperto da Pio IX pochi mesi prima (l’8 dicembre 1869) e sarebbe stato sospeso di lì a settembre a causa della breccia di Porta Pia. Eppure, in meno di un anno, l’assise aveva già approvato un documento molto importante contro gli errori filosofici dell’epoca (la costituzione dogmatica Dei Filius) e si apprestava a votare uno schema sulla Chiesa con un capitolo finale, l’undicesimo, dedicato all’infallibilità del Papa. Fu questo l’argomento che infiammò gli animi.
A San Pietro si erano formati due schieramenti. C’era una maggioranza di circa 450 vescovi (formata da italiani, metà dei francesi, spagnoli e anglosassoni) favorevoli al dogma, ma con diverse sfumature sul suo contenuto. Il vescovo inglese Manning si adoperava perché fosse definito immune da errore qualsiasi atto del Papa (forse alcuni gesuiti della Civiltà Cattolica la pensavano così) ma in genere prevaleva l’idea che a ricadere nell’“ombrello” dell’infallibilità fossero solo le definizioni in materia di fede. C’era poi una minoranza di circa 150 padri, prevalentemente francesi e tedeschi, che si diceva contraria al dogma per diversi motivi. Si riteneva che esso fosse inopportuno e avrebbe peggiorato i rapporti con la società moderna e le Chiese separate (ortodosse e protestanti), inoltre non sembrava ben fondato sulle Scritture. Il teologo tedesco Dollinger era il massimo avversario del dogma, e con i suoi articoli al vetriolo fu uno dei protagonisti del concilio, sebbene dall’esterno. Ma quale fu l’atteggiamento di Pio IX? Dalle ricostruzioni fatte dal suo biografo più autorevole, il gesuita Giacomo Martina, sappiamo che Papa Mastai considerava il dogma come un elemento fondamentale per combattere la modernità. Definire l’infallibilità personale del Papa avrebbe dato forza alla battaglia che il pontefice aveva ingaggiato contro l’anticlericalismo borghese e le filosofie razionaliste, libertarie, materialiste e atee del suo tempo, già denunciate nel Sillabo. Il Vaticano I fu un assise vera, nel senso che le discussioni furono davvero libere, sebbene guidate come da tradizione dal Papa. Ben presto si abbandonò la tesi estrema di mons. Manning e il cardinale Bilio, presidente della Commissione teologica nonché tra i più stretti collaboratori di Pio IX, fece in modo che la definizione del dogma fosse ben delimitata e includesse anche l’espressione “senza il consenso della Chiesa”, suggeritagli dal Papa. Queste parole volevano sottolineare come l’autorità pontificia non derivasse dai vescovi e non fosse bisognosa di un consenso. La minoranza cercò una mossa a sorpresa. Il giorno dopo, il 15 luglio, una delegazione di cinque vescovi chiese di parlare con Pio IX, per suggerire di eliminare l’inciso. Il Papa ascoltò e fu molto cordiale, ma sostanzialmente non fornì nessuna risposta. Avvenne quindi il colpo di scena. Il 17 luglio, la vigilia della seduta definitiva, circa 150 vescovi decisero di non partecipare alle votazioni e lasciarono Roma per fare ritorno alle loro diocesi. I 535 vescovi rimasti approvarono il documento (Pastor Aeternus), proprio mentre si abbatteva sulla città uno sconvolgente temporale che faceva piombare nel buio la Basilica. Finiva così la grande battaglia del Vaticano I. Un solenne Te Deum fu cantato da Pio IX insieme ai vescovi in ringraziamento di questo risultato. Nei mesi successivi i padri che non avevano partecipato al voto finale inviarono lettere di approvazione al Papa, manifestando la loro obbedienza. Il dogma fu senza dubbio provvidenziale e il suo significato non fa che acquistare valore con il tempo. Se la perdita del potere temporale chiuse infatti un ciclo storico per il papato, la definizione dell’infallibilità personale del Papa ex cathedra nelle materie di fede e di morale ne ha aperto uno nuovo, dove il ruolo di guida genuinamente spirituale appare più che mai necessario. Da un punto di vista ecumenico la Pastor Aeternus non è un inciampo, come spesso si dice, perché la definizione è “minimalista” e riconosce il potere dei vescovi nell'ambito del primato di giurisdizione papale, senza entrare tuttavia nel merito di questa articolazione. Ciò è stato sviluppato nel capitolo 3 della Lumen Gentium (Paolo VI ha invocato proprio la Pastor Aeternus per sdoganare la dottrina della collegialità del Vaticano II). Preso nel suo sviluppo dottrinale, il dogma dell'infallibilità appare come una sintesi tra i due estremi che storicamente si sono verificati nella vita della Chiesa (la ierocrazia medievale da una parte e il conciliarismo-gallicanesimo dall’altra).