lunedì 19 ottobre 2015

Perché la Chiesa vuole decentrarsi. Francesco e la "piramide capovolta"

Francesco sale improvvisamente in cattedra e indica il futuro della Chiesa in termini rivoluzionari. Proprio mentre il sinodo è ancora in pieno svolgimento e in cerca del risultato, Bergoglio, pochi giorni fa, ha dato un’incredibile spinta al cambiamento parlando di “decentralizzazione” e di “conversione” del papato, di collegialità episcopale permanente ed estesa a tutti i livelli. E inoltre ha legato questi temi ad una delle linee portanti del suo pontificato, quella di una “piramide capovolta”, di una Chiesa nella quale il Gregge è soggetto attivo dell’evangelizzazione, dotato di un proprio “fiuto”, e non solo il destinatario passivo della Chiesa gerarchica e docente. Nel suo discorso Francesco si è riallacciato soprattutto al Vaticano II, e questo non deve stupire. Certe pagine apparentemente sepolte del concilio non hanno mai smesso di suscitare cambiamenti, magari lenti, ma progressivi, nella Chiesa.
Anche e soprattutto perché si sono saldati con una dinamica storica inarrestabile (e magari essi stessi sono il riflesso di questi cambiamenti in atto). Nell’epoca delle comunicazioni istantanee, della tecnocrazia che si espande, del villaggio globale e quindi della liquidità digitale che, stando al lessico di Zygmunt Bauman, causa quel processo curioso di “glocalizzazione” (globalizzazione immediata e massificante degli stili di vita e localizzazione esplosiva delle identità e delle culture particolari come schegge impazzite), la Chiesa si è scoperta come mai nel passato, davvero “universale” e davvero “romana”. Un paradosso? Sì, ma è proprio questa la sua carta vincente. Essere "Romana" ed al contempo "Cattolica". Pensare globalmente ed agire localmente. Infatti questa sua doppia e malleabile identità, che nel passato ha causato così tante fluttuazioni, in un senso e nell’altro, sembra anche oggi la risorsa imprescindibile per sopravvivere al mutamento che incombe. Non è un caso che nell’ultimo secolo il ruolo dei pontefici sia enormemente cambiato. Dalla leadership dottrinale, risultato di una società uniforme e dominata dal senso religioso, si è via via passati ad una leadership morale, segno di un pluralismo da addomesticare e al tempo stesso di una secolarizzazione che ha eroso categorie acquisite. Il cantiere aperto sul piano del riequilibrio della struttura interna è anch’esso il riflesso di questo cambio di paradigma di portata epocale. Se è esistita una Chiesa “monarchica”, simile per certi versi alla rigidità degli stati nazionali dell’epoca assolutistica (e che può aver raggiunto un risultato positivo, ad esempio ridando corpo all’apparato ecclesiale che nel medioevo si era scollato troppo, oppure facendo scudo alle ingerenze esterne), è del tutto plausibile che esista in futuro, o forse già adesso stia esistendo, una Chiesa decentrata e “polifonica”, come disse una volta Benedetto XVI, simile per certi versi alle forme ibride di aggregazione trans-nazionali e trans-statuali, tipo l’Unione Europea. Solo che oggi la Chiesa gioca, per così dire, in casa. Perché la “glocalizzazione” è la sua stessa essenza e il decentramento corrisponde a un suo modo di essere, che è già stato collaudato nel passato con ottimi risultati. Nei primissimi secoli, infatti, la Catholica sopravvisse all’annientamento progettato dall’Impero Romano proprio perché era qualcosa di mai visto fino ad allora, un ibrido che andava ad insinuarsi come sabbia negli ingranaggi dell’ordinamento giuridico e statale. Il cristianesimo fu in quei secoli contemporaneamente centralizzato e decentrato. Proprio come una piramide rovesciata, i credenti furono una comunità di piccole cellule corpuscolari, che formavano un’organizzazione reticolare e da cui scaturiva una gerarchica modulare e ridondante, con i vescovi effettivamente eletti a partire dal popolo. I credenti, per usare il bergoglismo, avevano “fiuto”, sapevano capire ciò che andava fatto in base ad una fede trasmessa e vissuta con ardore. I martiri morivano non perché avessero ricevuto direttive da Roma relative ai culti proibiti, ma perché si immedesimavano nel messaggio di libertà insegnato da Cristo. Questa compresenza di “centralismo”, e cioè di strutturazione gerarchica (che guardava già a Roma come al cuore e alla “roccia” che presiedeva nella carità, nella certezza di una fede apostolica in caso di dispute dottrinali), e di diffusione tentacolare a livello di piccole comunità, mandò letteralmente in tilt l’Impero. Se, oggi, vivere in maniera glocal significa pensare globalmente e agire localmente, allora la Chiesa ha tantissime carte da giocare. A cominciare da una “conversione” del papato, che può aprirsi (e già si sta aprendo) a tante “situazioni nuove”, per usare la celebre espressione di Giovanni Paolo II ripresa da Francesco. Ovviamente senza perdere nulla di ciò che ha acquisito nel tempo a livello dottrinale, come nel caso dell’infallibilità, ma solo cambiando il modo di attuazione di queste prerogative, per meglio assolvere alla sua funzione di guida universale in un’epoca e in una Chiesa che sta mutando la sua struttura di fondo. Proprio come un quadro serializzato di Andy Warhol, il messaggio cristiano può diventare un variopinto processo di inculturazione persuasiva e dinamica, che fa dei modelli dominanti, apparentemente ostili se li si guarda con le categorie del passato, il suo stesso punto di forza.