In Timore e tremore ci sono delle deliziose punzecchiature contro gli hegeliani di ieri, utili anche a noi per ricordarci che le filosofie iper-razionaliste si rivelano prima o poi delle bufale. La cosa interessante è che per rispondere alle idee allora in voga Kierkegaard recuperò uno dei passi più belli ma anche più drammatici della Bibbia, quello di Abramo. Lo scopo era far notare come la fede in Dio, rappresentata esemplarmente da Abramo, sia un processo che lascia la ragione come annientata, incapace di dire alcunché, in attesa di capire. E questo aveva il chiaro intento di demolire quei raffinati quanto insulsi panlogismi hegeliani. Perché Kierkegaard è così affascinato da Abramo? Perché Abramo credette a Dio, incondizionatamente, senza mai anteporre qualcosa di suo, ma senza abdicare alla ragione (la fede non è irrazionale). Persino l’etica (Kierkegaard riflette sul sacrificio di Isacco come se si trovasse sul ciglio di un burrone che fa venire le vertigini) sembra in un certo senso “sospesa” davanti all’insondabilità di Dio, o meglio una cecità della ragione umana che non conosce ancora il senso della storia. Come se il singolo stia “in rapporto assoluto all’Assoluto”. E scrive una cosa che suona come il contraltare di ogni fuga mistica della fede (proprio in quegli anni bollata come “alienazione” da un altro filosofo tedesco, Feuerbach). “È una cosa grande – scrive – afferrare l’eternità, ma è più grande mantenere la realtà temporale dopo averla abbandonata”. Abramo infatti “credette per questa vita” e non si abbandonò ad una fuga nell’aldilà. Compì invece i due movimenti della fede, dal singolo a Dio, da Dio all’aldiqua. Stupendo. Anche quando, una volta generato Isacco dopo anni e anni di attesa, fu chiesto da Dio il sacrificio del giovane figlio della promessa, Abramo non esitò un istante. Scrive Kierkegaard: “Ma non dubitò, non si mise a sbirciare a destra e a sinistra con angoscia, non importunò il cielo con le sue preghiere. Sapeva ch'era Dio, l'Onnipotente, che lo metteva alla prova; sapeva che si poteva esigere da lui il sacrificio più duro: ma sapeva anche che nessun sacrificio è troppo duro quando è Dio che lo vuole - e cavò fuori il coltello”. Pagine corroboranti, piene di intuizioni che la teologia raramente ha battuto e che magari possiamo gustare rileggendo quel bellissimo libro del 1843.
Il Blog di Antonio Marguccio. Per difendere la Santa Chiesa Cattolica e il Papa
martedì 3 dicembre 2019
L'intuizione di Kierkegaard
Nel 1843 il filosofo danese Søren Kierkegaard propose una riflessione originalissima sulla figura di Abramo, che vibra tutt’oggi di una passione in grado di stupire credenti e non credenti. L’opera, intitolata Timore e tremore, fu partorita nel un periodo in cui imperversava la filosofia hegeliana, i cui frutti nefasti sarebbero stati raccolti nel secolo successivo. Nonostante l’euforia degli intellettuali per Hegel, che aveva spiegato tutte le vele dell’idealismo tedesco, Kierkegaard, marginalizzato e “bullizzato” dai connazionali per il suo aspetto fisico e ancor più per le sue idee controcorrente, aveva capito che quel sistema non avrebbe portato a nulla di buono.
In Timore e tremore ci sono delle deliziose punzecchiature contro gli hegeliani di ieri, utili anche a noi per ricordarci che le filosofie iper-razionaliste si rivelano prima o poi delle bufale. La cosa interessante è che per rispondere alle idee allora in voga Kierkegaard recuperò uno dei passi più belli ma anche più drammatici della Bibbia, quello di Abramo. Lo scopo era far notare come la fede in Dio, rappresentata esemplarmente da Abramo, sia un processo che lascia la ragione come annientata, incapace di dire alcunché, in attesa di capire. E questo aveva il chiaro intento di demolire quei raffinati quanto insulsi panlogismi hegeliani. Perché Kierkegaard è così affascinato da Abramo? Perché Abramo credette a Dio, incondizionatamente, senza mai anteporre qualcosa di suo, ma senza abdicare alla ragione (la fede non è irrazionale). Persino l’etica (Kierkegaard riflette sul sacrificio di Isacco come se si trovasse sul ciglio di un burrone che fa venire le vertigini) sembra in un certo senso “sospesa” davanti all’insondabilità di Dio, o meglio una cecità della ragione umana che non conosce ancora il senso della storia. Come se il singolo stia “in rapporto assoluto all’Assoluto”. E scrive una cosa che suona come il contraltare di ogni fuga mistica della fede (proprio in quegli anni bollata come “alienazione” da un altro filosofo tedesco, Feuerbach). “È una cosa grande – scrive – afferrare l’eternità, ma è più grande mantenere la realtà temporale dopo averla abbandonata”. Abramo infatti “credette per questa vita” e non si abbandonò ad una fuga nell’aldilà. Compì invece i due movimenti della fede, dal singolo a Dio, da Dio all’aldiqua. Stupendo. Anche quando, una volta generato Isacco dopo anni e anni di attesa, fu chiesto da Dio il sacrificio del giovane figlio della promessa, Abramo non esitò un istante. Scrive Kierkegaard: “Ma non dubitò, non si mise a sbirciare a destra e a sinistra con angoscia, non importunò il cielo con le sue preghiere. Sapeva ch'era Dio, l'Onnipotente, che lo metteva alla prova; sapeva che si poteva esigere da lui il sacrificio più duro: ma sapeva anche che nessun sacrificio è troppo duro quando è Dio che lo vuole - e cavò fuori il coltello”. Pagine corroboranti, piene di intuizioni che la teologia raramente ha battuto e che magari possiamo gustare rileggendo quel bellissimo libro del 1843.
In Timore e tremore ci sono delle deliziose punzecchiature contro gli hegeliani di ieri, utili anche a noi per ricordarci che le filosofie iper-razionaliste si rivelano prima o poi delle bufale. La cosa interessante è che per rispondere alle idee allora in voga Kierkegaard recuperò uno dei passi più belli ma anche più drammatici della Bibbia, quello di Abramo. Lo scopo era far notare come la fede in Dio, rappresentata esemplarmente da Abramo, sia un processo che lascia la ragione come annientata, incapace di dire alcunché, in attesa di capire. E questo aveva il chiaro intento di demolire quei raffinati quanto insulsi panlogismi hegeliani. Perché Kierkegaard è così affascinato da Abramo? Perché Abramo credette a Dio, incondizionatamente, senza mai anteporre qualcosa di suo, ma senza abdicare alla ragione (la fede non è irrazionale). Persino l’etica (Kierkegaard riflette sul sacrificio di Isacco come se si trovasse sul ciglio di un burrone che fa venire le vertigini) sembra in un certo senso “sospesa” davanti all’insondabilità di Dio, o meglio una cecità della ragione umana che non conosce ancora il senso della storia. Come se il singolo stia “in rapporto assoluto all’Assoluto”. E scrive una cosa che suona come il contraltare di ogni fuga mistica della fede (proprio in quegli anni bollata come “alienazione” da un altro filosofo tedesco, Feuerbach). “È una cosa grande – scrive – afferrare l’eternità, ma è più grande mantenere la realtà temporale dopo averla abbandonata”. Abramo infatti “credette per questa vita” e non si abbandonò ad una fuga nell’aldilà. Compì invece i due movimenti della fede, dal singolo a Dio, da Dio all’aldiqua. Stupendo. Anche quando, una volta generato Isacco dopo anni e anni di attesa, fu chiesto da Dio il sacrificio del giovane figlio della promessa, Abramo non esitò un istante. Scrive Kierkegaard: “Ma non dubitò, non si mise a sbirciare a destra e a sinistra con angoscia, non importunò il cielo con le sue preghiere. Sapeva ch'era Dio, l'Onnipotente, che lo metteva alla prova; sapeva che si poteva esigere da lui il sacrificio più duro: ma sapeva anche che nessun sacrificio è troppo duro quando è Dio che lo vuole - e cavò fuori il coltello”. Pagine corroboranti, piene di intuizioni che la teologia raramente ha battuto e che magari possiamo gustare rileggendo quel bellissimo libro del 1843.