Sta imperversando in rete una dura polemica contro i simboli e i riti dei popoli indigeni visti in alcuni momenti del Sinodo. Una cerimonia, svoltasi il 4 ottobre alla presenza del Papa nei Giardini Vaticani, è stata caratterizzata infatti da una serie di preghiere per la salvaguardia della natura, fatte secondo la sensibilità e le modalità dei nativi. C’è chi ha gridato ai riti vudù, ma è un'autentica bufala. Ancora più sbigottimento però ha generato la cerimonia di apertura del Sinodo la mattina del 7 ottobre, quando dall’altare di San Pietro è partita una processione capeggiata da una canoa che conteneva alcuni simboli dell’Amazzonia (un cesto, un arco, del vasellame) e tra questi la piccola scultura di legno che raffigura una donna incinta.
Si sta strillando allo scandalo da più parti per via di questa statuina che non si capisce bene cosa o chi rappresenti. Fonti ufficiose hanno riferito che si tratterebbe della Madonna, invocata come Nostra Signora dell’Amazzonia. Ma in realtà l’informazione è sbagliata, sia perché si conosce un’icona venerata con questo titolo e che è custodita in un santuario sul corso del Rio Negro, sia perché i tratti della scultura, per quanto graziosa, non sembrano pertinenti con una rappresentazione della Vergine Maria. In effetti uno dei portavoce ufficiali del sinodo, Paolo Ruffini, ha detto che è semplicemente una statua che rappresenta la vita. Magari può essere anche la Madre Terra, come è probabile. Il problema è che – a parte i soliti haters muniti di scomuniche antibergogliane – molti credenti si sono sentiti sinceramente turbati da questi simboli (e tra questi sulle prime ci sono stato anch’io) espressi nella basilica vaticana. Penso però, come sta cercando di dirci Papa Francesco, che dovremmo abituarci a considerare il cattolicesimo non più come un processo che ha un unico punto di diffusione (dall’Italia e dall’Europa al resto del mondo), ma come un movimento policentrico, che vede il vangelo inculturato realmente e non solo nei libri. Oggi ci è data la possibilità di vedere come la “buona notizia” di Gesù Cristo possa di nuovo entrare nelle culture mondiali, soprattutto in quelle meno sature di cose inutili (come la nostra) e agire a partire dalle loro simbologie, esperienze, espressioni, piantando quel seme che si sviluppa sul terreno, che porta novità radicali ma senza fare terra bruciata. Dobbiamo rammentarci che lo stesso cristianesimo delle origini seppe adottare questo stile nel mondo antico, dando inizio a quel grande processo di inseminazione della cultura greco-romana, che noi ormai diamo per scontato ma che fu qualcosa di straordinario. I cristiani seppero appropriarsi dei simboli culturali e anche religiosi del paganesimo (ad esempio la Mater Matuta), per ri-significarli e reintrodurli nella fede della Chiesa. D’altra parte, questo impulso a una missione inculturata e scrostata delle forme esteriori, non nasce certo oggi con il Sinodo sull’Amazzonia. Ha un respiro lungo che risale almeno a un secolo fa con Benedetto XV e la sua enciclica Maximum Illud (commemorata proprio nell’angelus di questa domenica da Papa Francesco). Ricorderei anche che Giovanni Paolo II, per l’apertura della porta santa in occasione del Giubileo del 2000, scelse una cerimonia rispettosa della interculturalità della Chiesa. Il rito fu infatti accompagnato da persone che vestivano i loro abiti tradizionali, oltre che dal suono di corni africani e arpe tradizionali giapponesi echeggianti proprio nella basilica vaticana. E fu un momento indimenticabile.