Qualcuno lo ha capito bene e comincia a prendere le distanze dal padre della teoria dell’evoluzione, Charles Darwin, perché il suo pensiero rischia di riportare la religione al centro del discorso scientifico odierno. Sembra assurdo, ma le cose stanno proprio così. Per capirlo bisogna fare prima un piccolo tuffo nel passato, esattamente al 1859, l’anno in cui il naturalista britannico di Down House pubblicò il suo famoso libro L’Origine delle Specie.
In quella sua opera Darwin disse che gli esseri viventi formano un’unica rete di organismi in perenne trasformazione a seconda delle modificazioni ambientali. La selezione naturale è il processo che unisce la varietà delle specie viventi (il loro impercettibile eppure costante cambiamento strutturale dovuto al puro caso) alle diverse condizioni climatiche, geologiche, vitali degli ecosistemi. Non è Dio, dunque, che interviene direttamente per creare questa o quella specie, come la scienza pensava fino a qualche decennio prima (era questo il fissismo-creazionismo sette-ottocentesco) ma una legge universale presente nella natura. Leggiamo cosa scrisse Darwin: “Autori di altissima levatura [si riferisce appunto ai colleghi creazionisti] sembrano perfettamente soddisfatti dall’opinione che ciascuna specie sia stata creata indipendentemente. Per la mia mentalità meglio si accorda con quanto conosciamo delle leggi impresse sulla materia dal Creatore il concetto che la produzione e l’estinzione degli abitanti passati e attuali del mondo siano derivati da cause seconde, simili a quelle che determinano la morte e la nascita dell’individuo”. Attenzione, Darwin non era un materialista ateo (forse lo diventò in seguito, eppure tali sono stati i suoi seguaci), ma un deista. Credeva in un Creatore onnipotente che aveva dato origine alla prima forma di vita, elementare e bisognosa di sviluppo verso la perfezione. Ma Dio, questa Causa prima, si era limitato alla “prima mossa”, come un orologiaio che realizza un pendolo dotato di tutti i meccanismi, e una volta messo in moto se ne disinteressa, lasciando che la macchina funzioni da sé. Ecco perché concepiva l’evoluzione di animali e piante come sottostante a “leggi impresse sulla materia dal Creatore”. Tali leggi, universali , sono le cause seconde che derivano dalla Causa prima, Dio. Non ci sarebbero queste leggi se non esistesse Dio che le ha immesse nella natura. Il caso dunque, per Darwin, non è un caso assoluto, ma ricade nel cono di luce di un possibile che nasce da Dio. Questo dettaglio, quando il suo libro venne pubblicato, non fu notato praticamente da nessuno, perché la società inglese ed europea e gli stessi cattolici erano scioccati dal solo pensare che gli esseri viventi evolvessero e fossero collegati tra loro, senza specifici interventi divini. Eppure la teoria di Darwin poggiava, seppur deformandole, su basi teologiche cristiane, perché considerava comunque impossibile che il mondo fosse nato dal caso assoluto, ma rimaneva sempre l’opera di un Dio creatore, un “Progettista” che aveva dato premesse di razionalità all’esistente con una serie di leggi universali. Questo aspetto, si badi bene, è fondamentale per capire come la scienza moderna si sia servita della teologia e della visione cristiana del mondo per portare avanti la sua rivoluzione. Nel mio libro L’incanto del mondo ho messo in evidenza questo aspetto, ripercorrendone la storia, che è fonte di imbarazzo per l’ateismo scientifico, oggi aggressivo e minaccioso. Il punto è che qualcuno sta cercando di correre ai ripari, prendendo le distanze da Darwin per non cadere in un approccio del tipo “la scienza come disciplina che studia le cause seconde impresse dal Creatore alla natura”. Questo oggi è davvero inaccettabile per via di quella forma di scientismo-positivismo che ha preso il sopravvento quasi ovunque. E allora ecco la teoria dell’evoluzione 2.0, ripulita opportunamente del credo criptodeista darwiniano. Cito da un recentissimo articolo di Edoardo Boncinelli su Le Scienze, nota e autorevole rivista di divulgazione in Italia: “La vita – scrive Boncinelli – non è un dato di fatto sorretto e garantito da specifiche entità superiori o da leggi universali; deve anzi conquistarsi ogni giorno uno spazio e una legittimità. (…) Non c’è nessuna garanzia che di generazione in generazione e di secolo in secolo la vita debba esistere e continuare a esistere: non c’è che sperare e selezionare il meno disadatto a vivere”. Ecco dunque una versione debole dell’evoluzionismo, che pretende di non fondarsi su nessuna legge universale (causa seconda) e dunque men che meno su nessuna Causa prima (Dio). In questa nuova versione non si può parlare nemmeno di sopravvivenza del più adatto (eppure ce lo hanno insegnato per decenni a scuola e nelle aule universitarie). No, bisogna parlare di sopravvivenza “del meno disadatto”, perché tutto è appeso a una ineluttabile in-esistenza. Il nulla è in agguato per inghiottirci in ogni istante. Questo mondo e la vita in esso non hanno in fondo niente da sperare, tutto è immotivato, caotico, pronto a sommergerci come uno tsunami. Boncinelli tenta invano la carta di un tiepido “umanesimo” laico, commentando la particolare strategia evolutiva di una mosca che vive nell’acqua salata e che può essere d’ispirazione per noi, un po’ come la ginestra di leopardiana memoria. Ma è chiaro ed evidente che questa “teoria debole” dell’evoluzione, e di riflesso questa epistemologia debole della scienza, porta necessariamente al nichilismo e all’ateismo. Implicitamente è così, e l’impostazione ricorda molto quella di Claude Lévi-Strauss, il filosofo ateo che aspettava il tramonto definitivo dell’uomo e con esso del senso dell’essere. Risulta al tempo stesso evidente come questa ostentata “debolezza” del pensiero scientifico nasca dal desiderio di salvare un pezzo di darwinismo (la teoria della selezione naturale) e di buttarne a mare un altro pezzo che oggi non piace più (il riferimento alle cause seconde e alla Causa prima). Questa operazione presta il fianco a molte critiche. In particolare sottolineo questa: la teoria della selezione naturale non può essere staccata dalla “fede”, per quanto deista, in un Dio-Logos che ha creato e ordinato il mondo, perché isolata dal suo retroterra filosofico-teologico non sta più in piedi. Lo stesso discorso scientifico, se rigetta una Causa prima o comunque una razionalità del reale, non ha più senso, perché il metodo empirico si basa sul presupposto che la natura abbia una ratio interiore, un logos, un sistema di leggi universali che la fanno funzionare. Se si toglie questo presupposto, viene a cadere il concetto stesso di scienza.