giovedì 8 settembre 2016

“Sete di pace”. Bergoglio convoca tutti ad Assisi per la giornata di preghiera interreligiosa. I precedenti di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI

Per il trentennale dello storico raduno convocato da Giovanni Paolo II nel 1986, Papa Francesco accoglierà ad Assisi i leader delle religioni mondiali per pregare e chiedere il dono della pace. Un incontro che arriva in un momento di “guerra mondiale a pezzi”, come ha ripetuto più volte Bergoglio, e in un’Europa scossa dai massacri del fondamentalismo religioso. Per il papa argentino sarà la terza visita nella terra di San Francesco (i precedenti nel 2013 e un mese fa per l’indulgenza della Porziuncola).
In questi trent’anni Assisi è diventata molto più che un esperimento di dialogo interreligioso, ma un vero e proprio segno, una profezia del nostro tempo. Assisi significa fare la pace nel momento stesso in cui la si implora a Dio. Occasione di amicizia tra uomini di diverse fedi, di riflessione sulle colpe del passato, di sguardo fiducioso sul domani. Un grande, immenso cantiere a cielo aperto, che affonda le sue radici nel profondo del cuore, in quel sacrario, la coscienza, dove ogni uomo trova riflessa l’immagine di Dio e la verità del bene. Per capire cosa è stato e cosa sarà l’incontro di Francesco il prossimo 20 settembre, ripercorriamo le riflessioni di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.

“Qui noi stiamo agendo come gli araldi della coscienza morale dell’umanità”. San Giovanni Paolo II e l'incontro del 27 ottobre 1986. “Noi veniamo da lontano non solo, per molti di noi, a motivo di distanze geografiche, ma soprattutto a causa delle nostre origini storiche e spirituali”. È l’interessante inizio del discorso di Giovanni Paolo II del 1986, nel quale Papa Wojtyla fece appello a unire gli sforzi per la pace, attingere alle “più profonde e vivificanti risorse”. Il linguaggio fu forse la sfida più impegnativa di quella prima riflessione. Il papa cercò di essere quanto più comprensivo e ampio possibile. Parlò di “potere supremo”, “Essere Assoluto”, “Realtà che è al di là di tutti noi”, fino alla definizione “Potere che è al di sopra di tutte le nostre forze umane”. “La pace – disse al termine della Giornata –  dipende fondamentalmente da questo Potere che chiamiamo Dio, e che, come noi cristiani crediamo, ha rivelato se stesso in Cristo”. Come aveva fatto in altre circostanze, Giovanni Paolo II non eluse il momento dell’annuncio cristiano anche se su una piattaforma di incontro rispettoso e dialogante. A livello verbale quindi possiamo dire che Giovanni Paolo II compì una sorta di pellegrinaggio semantico, affinando man mano le definizioni del “divino” fino a pronunciare una professione di fede. Ma il tema della verità operò anche a livello più esplicito. L'incontro, chiarì il Papa in apertura della giornata, non era da intendere come “una concessione a un relativismo nelle credenze religiose, perché ogni essere umano deve sinceramente seguire la sua retta coscienza nell'intenzione di cercare e di obbedire alla verità”. Inoltre il papa polacco espresse il fermo appello ad operare in spirito di obbedienza alla verità morale. Aspetto di suprema importanza, affermò, “è l’imperativo interiore della coscienza morale, che ci ingiunge di rispettare, proteggere e promuovere la vita umana, dal seno materno fino al letto di morte, in favore degli individui e dei popoli, ma specialmente dei deboli, dei poveri, dei derelitti: l’imperativo di superare l’egoismo, la cupidigia e lo spirito di vendetta”. Continuò: “Qui noi stiamo agendo come gli araldi della coscienza morale dell’umanità come tale, umanità che aspira alla pace, che ha bisogno della pace”. Un ulteriore traccia di questa tensione sottocutanea del magistero wojtyliano verso la verità è riscontrabile nella professione di fede in Cristo espressa con umile ma tenace certezza (“Ripeto umilmente qui la mia convinzione: la pace porta il nome di Gesù Cristo”) e nella citazione conclusiva della preghiera attribuita a San Francesco: “dove è dubbio, ch’io porti la fede, / dove è errore, ch’io porti la verità”.

La “preghiera multireligiosa”. Limiti e potenzialità negli scritti del cardinale Ratzinger
Assisi ha segnato una fase di rinnovamento della teologia postconciliare sul tema del dialogo interreligioso. Negli anni lo storico incontro sollevò una serie di dibattiti che vertevano sull'estensione del metodo a livello locale e sulla possibilità per cattolici e credenti di altre religioni di pregare insieme. Come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Cardinale Ratzinger partecipò in vario modo a tale dibattito, soprattutto presentando il proprio personale punto di vista in una serie di conferenze universitarie che nel 2002 raccolse e pubblicò nel libro intitolato Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo (ed. Cantagalli, Siena, 2003). Nel volume, che affronta da diverse prospettive il fenomeno del pluralismo religioso nel mondo globalizzato alla luce della fede cristiana, l’allora Cardinale Ratzinger ha esposto anche alcune riflessioni inedite sulla questione della preghiera interreligiosa proprio in riferimento ad Assisi. Il paragrafo intitolato “Distinguere ciò che è cristiano” parte da due documenti teologici elaborati sulla base di una concreta esperienza di preghiera comune, il primo a Bangalore (India) nel 1996 e l'altro a Bose (Italia) nel 1997. Il testo di Bangalore in particolare postula la ricerca di nuovi modi di articolare la fede cattolica per armonizzarla con le altre religioni mondiali, in modo da oltrepassare le categorie di esclusivismo/inclusivismo. Tale prospettiva, notava il Prefetto della Dottrina della Fede, può portare a non distinguere accuratamente il Dio biblico personale dalla mistica impersonale delle religioni orientali. “Davvero questa concezione – scriveva il cardinale Ratzinger – è 'più devota'? E soprattutto: è più vera? Chiediamoci in termini concreti: quale cambiamento produce? Che ne è del nostro credere e pregare? Anzitutto – continuava –, se la concezione personale e quella impersonale di Dio si equivalgono, sono fungibili, allora la preghiera diviene finzione, perché se Dio non è un Dio che vede e che ode, se Egli non mi conosce e non mi sta davanti, la preghiera si leva nel vuoto. Essa risulta essere solo una forma di autocoscienza, di relazione intrattenuta con se stessi, non un dialogo. Può essere allora un'iniziazione all'assoluto, il tentativo di ascendere dalla condizione di separazione dell'io a un infinito a cui nel profondo sono identico e nel quale voglio inabissarmi. Ma tale preghiera non ha alcun punto di riferimento su cui ci si possa misurare e dal quale ci si possa attendere una qualche forma di risposta. Ancor più: se posso lasciarmi alle spalle la fede in Dio come 'persona', quasi si trattasse di una forma di rappresentazione accanto a quella impersonale, allora questo Dio non sarebbe più soltanto un Dio che non ascolta e non parla (Logos), ma un Dio che non ha neppure una volontà (conoscere e volere infatti sono i due contenuti essenziali del concetto di persona). Dunque non esisterebbe una volontà di Dio. Dunque non ci sarebbe nemmeno un'ultima differenza tra bene e male”. Quindi si rende necessario, postulava l'allora cardinale Ratzinger, riaffermare con forza il presupposto, professato da Israele e dalla Chiesa, della preghiera al Dio personale. Nel successivo paragrafo intitolato “Preghiera multireligiosa e interreligiosa” Ratzinger faceva un esplicito riferimento all'esperienza di Assisi. “Nell'epoca del dialogo e dell'incontro delle religioni è sorto inevitabilmente il problema se si possa pregare insieme gli uni con  gli altri. A questo proposito oggi si distingue preghiera multireligiosa e interreligiosa. Il modello per la preghiera multireligiosa è offerto dalle due giornate mondiali di preghiera per la Pace, nel 1986 e nel 2002, ad Assisi. Appartenenti a diverse religioni si radunano. Comune è la sofferenza per le angosce e le miserie del mondo e per la sua mancanza di pace, comune è l'anelito all'aiuto dall'alto contro le forze del male, affinché possano entrare nel mondo pace e giustizia. Da qui la volontà di porre un segno pubblico di questo anelito, che dovrebbe scuotere tutti gli uomini e rafforzare la buona volontà, che è condizione della pace. Tuttavia – aggiungeva – le persone radunate sanno pure che il loro modo di intendere il 'divino' e quindi la loro maniera di rivolgersi a esso sono così diversi che una preghiera comune sarebbe una finzione, non sarebbe nella verità. Esse si raccolgono per dare un segno del comune anelito, ma pregano – anche se in contemporanea – in sedi separate, ciascuno a modo proprio”. Quindi sollevava una serie di questioni: “In riferimento ad Assisi, tanto nel 1986 quanto nel 2002, ci si è chiesti ripetutamente e in termini molto seri se questo sia legittimo. La maggior parte della gente non penserà che si finge una comunanza che in realtà non esiste? Non si favorisce così il relativismo, l'opinione che in fondo siano solo differenze secondarie quelle che si frappongono fra le 'religioni'? Non si indebolisce così la serietà della fede, non si allontana ulteriormente Dio da noi, non si consolida la nostra condizione di abbandono? Non si possono accantonare con leggerezza tali interrogativi. I pericoli sono innegabili, e non si può negare che Assisi, particolarmente nel 1986, da molti sia stato interpretato in modo errato. Sarebbe però altrettanto sbagliato rifiutare in blocco e incondizionatamente la preghiera multireligiosa così come l'abbiamo descritta”. Proponeva allora questa sluzione. “Tale preghiera multireligiosa non può essere la norma della vita religiosa, ma deve restare solo come un segno in situazioni straordinarie, in cui, per così dire, si leva un comune grido d'angoscia che dovrebbe riscuotere i cuori degli uomini e al tempo stesso scuotere il cuore di Dio. (…). L'avvenimento deve presentarsi in se stesso e davanti al mondo in modo talmente chiaro da non diventare dimostrazione di relativismo, perché si priverebbe da solo del suo senso”.  

Il discorso di Benedetto XVI del 27 ottobre 2011. Il “mea culpa” e la decadenza dell’uomo
Nell’incontro del 2011 Benedetto XVI pronunciò un discorso forte, nel quale risuonò innanzitutto il “mea culpa” per le colpe del passato. “Come cristiano – disse – vorrei dire a questo punto: sì, nella storia anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza. Lo riconosciamo, pieni di vergogna”. Nella sua riflessione memorabile indicò due grandi tipologie di violenza “che sono diametralmente opposte nella loro motivazione e manifestano poi nei particolari molte varianti. Anzitutto c’è il terrorismo, nel quale, al posto di una grande guerra, vi sono attacchi ben mirati che devono colpire in punti importanti l’avversario in modo distruttivo, senza alcun riguardo per le vite umane innocenti che con ciò vengono crudelmente uccise o ferite.”  Quindi “una seconda tipologia di violenza dall’aspetto multiforme [che] ha una motivazione esattamente opposta: è la conseguenza dell’assenza di Dio, della sua negazione e della perdita di umanità che va di pari passo con ciò. I nemici della religione vedono in questa una fonte primaria di violenza nella storia dell’umanità e pretendono quindi la scomparsa della religione. Ma il ‘no’ a Dio ha prodotto crudeltà e una violenza senza misura, che è stata possibile solo perché l’uomo non riconosceva più alcuna norma e alcun giudice al di sopra di sé, ma prendeva come norma soltanto se stesso. Gli orrori dei campi di concentramento mostrano in tutta chiarezza le conseguenze dell’assenza di Dio”. Concluse parlando della decadenza silenziosa dell’uomo causata dai sistemi dell’antipensiero, incentrati sul profitto e sull’utile. “L’adorazione di mammona, dell’avere e del potere, si rivela una contro-religione, in cui non conta più l’uomo, ma solo il vantaggio personale. Il desiderio di felicità degenera, ad esempio, in una brama sfrenata e disumana quale si manifesta nel dominio della droga con le sue diverse forme. Vi sono i grandi, che con essa fanno i loro affari, e poi i tanti che da essa vengono sedotti e rovinati sia nel corpo che nell’animo. La violenza diventa una cosa normale e minaccia di distruggere in alcune parti del mondo la nostra gioventù. Poiché la violenza diventa cosa normale, la pace è distrutta e in questa mancanza di pace l’uomo distrugge se stesso.L’assenza di Dio porta al decadimento dell’uomo e dell’umanesimo. Ma dov’è Dio? Lo conosciamo e possiamo mostrarLo nuovamente all’umanità per fondare una vera pace? Riassumiamo anzitutto brevemente le nostre riflessioni fatte finora. Ho detto che esiste una concezione e un uso della religione attraverso il quale essa diventa fonte di violenza, mentre l’orientamento dell’uomo verso Dio, vissuto rettamente, è una forza di pace. In tale contesto ho rimandato alla necessità del dialogo, e parlato della purificazione, sempre necessaria, della religione vissuta. Dall’altra parte, ho affermato che la negazione di Dio corrompe l’uomo, lo priva di misure e lo conduce alla violenza”.