Stretta
fra la mani per la benedizione la Madonnina di Aparecida sembrava ancora più
piccola e “fragile” nel gigantesco santuario. Eppure Papa Francesco ha fatto di
quel gesto la chiave di volta del suo viaggio in Brasile indicando proprio
nella Vergine di Aparecida una lezione permanente sulla missione della Chiesa. Il
discorso all’episcopato carioca avvenuto a Rio de Janeiro il 27 luglio ha fatto
prendere il largo al nuovo pontificato precisando meglio quali saranno i tasti
più battuti da Francesco.
Innanzitutto l’interesse per i temi basilari della
vita umana, come la fame e la ricerca di cibo, che noi europei non riusciamo da
tempo a concepire (al massimo possiamo avere una cognizione delle povertà
urbane, che però sono un prodotto del sistema benessere e della disintegrazione
sociale conseguente). Provenendo dai bassifondi del mondo globalizzato,
Papa Francesco conosce invece la vera povertà e la vera fame, quella che
prolifera nella più assoluta miseria ed è come se ci avesse dato un pizzico per
svegliarci dal torpore. “All’inizio dell’evento di Aparecida – afferma – c’è la
ricerca dei poveri pescatori. Tanta fame e poche risorse. La gente ha sempre
bisogno di pane. Gli uomini partono sempre dai loro bisogni, anche oggi”. Quindi
una “teofania” su scala umana, che parte dalla sofferenza primordiale, da acque
profonde e apparentemente inaccessibili nelle quali però la Chiesa è chiamata a
“pescare” un Dio che è “sorpresa”. “La Chiesa deve imparare questa attesa”, dice
il Papa, l’arte del ricomporre il mistero “pian piano” e di rimettere in gioco
tutto per evitare automatismi che possono mandare alla deriva (ad esempio
rivestendo il Mistero di una “razionalità aliena alla nostra gente” e che rende
complicato ciò che invece è bellezza e semplicità). E quindi arriviamo al cuore
del ragionamento. “Le reti della Chiesa sono fragili, forse rammendate; la
barca della Chiesa non ha la potenza dei grandi transatlantici che varcano gli
oceani. E tuttavia (Dio) vuole manifestarsi proprio attraverso i nostri mezzi,
mezzi poveri, perché sempre è Lui che agisce”. Francesco ha in mente una Chiesa
che non è puro efficientismo, programmazione pastorale, statistiche sulle vocazioni, pubblicità,
intrallazzi, carta patinata, auto di lusso, tè e lobby politica, ma una Chiesa della povertà
in se stessa, della compassione e dell’abbassamento. L’episodio di Emmaus diventa
un’altra grande “chiave di lettura del presente e del futuro”, un’icona della
fuga e del cristianesimo ridotto a terreno sterile e troppo sfruttato (eloquente
la citazione del beato Newman). Serve una Chiesa, dice il Papa, “capace di
decifrare la notte contenuta nella fuga di tanti fratelli e sorelle da
Gerusalemme; una Chiesa che si renda conto di come le ragioni per le quali c’è
gente che si allontana contengono già in se stesse anche le ragioni per un
possibile ritorno”. Questo passo formidabile che sembra una pagina perduta del
Vaticano II in un certo senso sposta il problema dalla semplice dicotomia
Chiesa/mondo (che pure è una variabile contemplata) ad una sorta di grande ripensamento
intraecclesiale (Chiesa troppo debole?, troppo
lontana ?, troppo fredda?, troppo autoreferenziale?, troppo vecchia?). Francesco
descrive le grandi sorgenti della fede: “Scrittura,
Catechesi, Sacramenti, Comunità, amicizia del Signore, Maria e gli Apostoli” .
Non è difficile immaginare che la risposta intersecherà questi temi, peraltro
già toccati nella inusuale, lunghissima intervista sul volo di rientro.