martedì 19 marzo 2013

Lo Spirito in azione. Il grande inizio di Papa Francesco in prospettiva storica

La sua prima Messa in S. Pietro Papa Francesco l’ha voluta essenziale. I simboli petrini sono apparsi ridotti all’osso (pallio e anello del pescatore) non molto diversi da quelli che accompagnano un vescovo mentre prende possesso della propria diocesi. Non è una frattura rispetto al passato ma l’inevitabile conseguenza di un ciclo storico e di un “soffio” spirituale che nonostante tutte le avversità continua a gonfiare le vele del papato.
Come si sa fu Paolo VI l’ultimo Pontefice Massimo ad accettare il triregno, peraltro alquanto stilizzato e poi messo all’asta per darne il ricavato ai poveri. Dopo di lui, sotto la spinta del concilio che invitava a recuperare l’essenziale, Giovanni Paolo I lo sostituì con l’imposizione del pallio e della mitria episcopale. Lo stesso fecero Wojtyla e Ratzinger, quest’ultimo recuperando la forma gotica della fascia di lana (rappresentazione del Buon Pastore che porta sulle spalle la pecorella smarrita), la stessa, anche se con una lieve variante, che ha indossato Bergoglio. Insomma, non è un caso che la barocca “Messa d’intronizzazione” conosca da una quarantina d’anni a questa parte una mutazione silenziosa ma sostanziale. Le origini di questo sfoltimento sono anche storiche. Prima di Porta Pia il potere temporale era avvinghiato alla barca di Pietro come un’edera e i Papi facevano fatica a distinguere le due cose. Ad esempio esistono delle lettere di Pio IX che denunciano come sacrilega l’annessione italiana degli Stati Pontifici, provvidenzialmente assegnati alla potestà pontificia e quindi intangibili. Passato qualche anno ci si accorse però che la perdita del “Patrimonium Petri” era come l’aver gettato inutili zavorre dalla barca. Non discutiamo della grave ripercussione che questo causò nei territori ex pontifici e in genere in Italia per via della dualità tra Chiesa e Stato laico (le cui conseguenze ancora oggi sono vivissime). L’“alleggerimento” del papato fu chiaramente constatabile nel 1914 quando Benedetto XV denunciò senza peli sulla lingua “l’inutile strage” della prima guerra mondiale (nel 1848 invece Pio IX era finito in un vicolo cieco attirandosi l’ira di tutti, italiani e austriaci, a causa di un evidente “conflitto di interessi” con il Risorgimento). Detto in altri termini il Papato poteva guardare finalmente all’essenziale delle cose senza limitanti preoccupazioni diplomatiche, ed anzi proprio la sua povertà territoriale esaltava il messaggio spirituale. Quando Pio XI siglò il concordato disse appunto che la Città del Vaticano era un piccolo piedistallo per autogestire la sede apostolica, sottolinearne l’imparzialità ed evitare pericolose intromissioni politiche, ma niente di più. Ancora una volta la provvidenzialità di questo processo apparve poco dopo con le denunce di Pio XII durante la seconda guerra mondiale e anche recentemente, quando Giovanni Paolo II criticò, con le forze che gli rimanevano, la seconda guerra irachena. In quella circostanza molti fecero notare che il Vaticano era diventato un polo mondiale per la richiesta di legalità, oscurando un’ONU esangue. La mondializzazione del papato procede di pari passo con il ritorno alle radici. Non è un caso che la leadership spirituale sia accompagnata dal rifiuto delle vecchie “chincaglierie” temporalistiche e che i simboli esprimano un desiderio di essenzialità evangelica. Papa Francesco, presentatosi con le “coordinate” episcopali e romane, sta esplicitando un desiderio latente nella coscienza ecclesiale, un anelito all’unità nella diversità in prospettiva cattolica ed ecumenica. La sua attenzione alle “periferie del cuore”, ai poveri che ha voluto come familiari nella Messa inaugurale di ieri, è un vero e proprio atto di governo, del tutto conseguente con la speranza di una “Chiesa povera e per i poveri”. È come se Roma fosse chiamata  a mostrare l’origine del suo primato episcopale e quindi petrino, un primato che, come ricordava Sant’Ignazio di Antiochia, non può che risiedere nella carità.