Curioso
destino, le dimissioni dell’11 febbraio hanno acceso i riflettori su
una figura desiderosa di solitudine con Dio – un “monte” mistico di cui
Benedetto XVI ha parlato nell’ultimo angelus. Il suo addio nell’udienza
del mercoledì è stato commovente, ma Joseph Ratzinger è rimasto quello
di sempre, essenziale, ritroso, ragionatore fino all’ultimo. Tra poche
ore questo pontificato si concluderà e vogliamo ricordarlo nei suoi
punti salienti, in quei giorni di “brezza” fruttuosa e anche di “vento contrario”, comunque sempre pieni di Cristo, unico Capo della Chiesa,
Signore della storia. Benedetto XI si
affacciò sorridente alla loggia centrale di San Pietro il 19 aprile
2005, dopo un conclave molto breve di soli due giorni.
Settantottenne,
si presentò – chi non lo ricorda – come un “umile lavoratore nella vigna
del Signore”. Parole misurate ma affascinanti che segnarono tutto lo
stile del pontificato, restio agli applausi e alla scena pubblica. In
Vaticano dal 1981 come Prefetto della Congregazione per la Dottrina
della Fede, il cardinale Ratzinger era stato il principale collaboratore
di Papa Wojtyla in materia dogmatica (suo l'affronto risolutivo alla
teologia della liberazione che era permeata anche in settori
dell'episcopato latinoamericano). L'eredità del Papa polacco, smisurata
secondo molti, avrebbe schiacciato il suo successore. E invece non è
stato così. Già ai funerali del 9 aprile dimostrò di saper dominare
perfettamente le masse lasciando correre un applauso interminabile nel
colonnato del Bernini. Una volta eletto alla cathedra Petri ha cercato
di istituzionalizzare il carismatico pontificato del predecessore. Ha
derogato dalle leggi canoniche invitando i postulatori a far “presto e
bene” per la beatificazione di Giovanni Paolo II, cosa che è avvenuta il
primo maggio 2011 come risposta al “Santo subito” della piazza
(trovando quindi un punto di equilibrio tra la base e la punta della
piramide ecclesiastica). Il primo raffronto che si è imposto
all'attenzione è stata la GMG di Colonia nell'estate 2005, indetta dallo
stesso Wojtyla. Benedetto XVI ha dimostrato una personale rilettura
dell'evento mettendo da parte la gestualità che non gli era congeniale e
arricchendo le veglie di preghiera con suggestive adorazioni
eucaristiche che hanno lasciato il segno. La sua pastorale giovanile si è
dimostrata, in altre occasioni, incredibilmente sensibile e soprattutto
dialogata, non semplicemente catechetica. Sul fronte interreligioso,
dove altrettanto impegnativa era l’eredità, ha proseguito l'opera del
predecessore con particolare sensibilità per l'oriente (patriarcato
ortodosso di Costantinopoli) indicendo anche un sinodo speciale per
frenare l’emorragia di cristiani in fuga dalle guerre. Ha ottenuto anche
un rientro insperato di alcuni anglicani nella Chiesa romana. In
Turchia ha tollerato alcuni indirizzi poco cordiali da parte dei leader
religiosi ed è entrato nella Moschea Blu a piedi scalzi, destando
impressione in tutto il mondo. Con l'ebraismo ha mantenuto rapporti
fraterni nonostante le vuote polemiche su Pio XII che hanno oscurato la
sua visita alla sinagoga di Roma. Inoltre ha confermato l'incontro di
Assisi ma calibrando meglio la funzione della “preghiera comune” per la
pace (mentre ha ripreso in tutta la sua forza profetica l'atto
penitenziale di Giovanni Paolo II per le colpe dei cristiani nella
storia). Sulla scia di Papa Wojtyla Benedetto XVI è stato profondamente
europeista a cominciare dal discorso di Ratisbona del 2006, vero cuore
del suo magistero e messaggio profetico per il Vecchio Continente,
divenuto relativista e incapace di accogliere ragione e fede in una
sintesi dinamica e creatrice di libertà (anche per questo è stato
boicottato dai fondamentalisti religiosi non meno che dagli
intellettuali liberal). I numerosi incontri con il mondo della cultura
hanno rivelato il suo forte interesse per la discussione accademica e il
confronto intellettuale (anche per questo temuto dai bigotti
universitari della Sapienza di Roma e comunque detestato dai “filosofi”
moderni a corto di idee). Conseguenza innovatrice di questa particolare
opzione del pontificato è stata il “cortile dei gentili”. Rispetto alle
tre encicliche sociali di Giovanni Paolo II ha pubblicato tre encicliche
“pre-sociali” per così dire (Deus Caritas Est, Spe Salvi, Caritas In
Veritate) lasciando l'analisi storica più sullo sfondo e centralizzando
l’Amore di Dio come costruttore di storia e di rapporti sociali
autentici (in aperta sfida alle ideologie umanitarie naufragate nel
Novecento e al materialismo unidimensionale di oggi). Dura è stata la
reprimenda al capitalismo del XXI secolo sempre più asettico e
mercificante, al quale ha opposto un correttivo strutturale, l'amore
come gratuità che va oltre il mercato. Particolare attenzione ha rivolto
all'Africa con due viaggi internazionali e un sinodo speciale, nel
quale ha duramente condannato la globalizzazione “tossica” e
disumanizzante che l'occidente tecnicista senz'anima propina
indiscriminatamente alle altre culture mondiali. In politica “estera”
Benedetto XVI è stato prudente, ha cercato stabilizzazione di rapporti
con la Cina senza dimenticare il Tibet occupato, conciliando interessi
ecclesiali e universalismo. Ha adottato inoltre una politica di
distensione con gli USA dopo le fibrillazioni della guerra irachena. I
rapporti con la politica italiana sono sembrati meno eclatanti e votati
ad una maggiore discrezione rispetto al passato, anche in conseguenza
della nomina del card. Bagnasco a Presidente della Cei. Durante il
governo Prodi si è comunque opposto seccamente ai Pacs. Il suo richiamo
ai valori “non negoziabili” va letto come un nucleo da salvaguardare in
caso di attacchi frontali. Ricchissima la sua riflessione sulla Chiesa, a
cominciare dalle denunce inflessibili sul marcio che ne deturpa il
volto. Nonostante lo scandalo pedofilia abbia fatto sussultare parecchi
episcopati locali, ha tenuto la barra dritta con una politica della
chiarezza sorprendente anche per lo stesso apparato papale. Dovunque è
andato (Cipro, USA, Australia, etc.) Benedetto XVI ha denunciato con
forza le colpe del clero, adottando anche misure conseguenti nella
giurisprudenza canonica. È da rilevare poi l'“ermeneutica della
continuità”, cornice teorica con la quale ha offerto una visione meno
traumatica del Vaticano II e anche tentativo pratico di superare sterili
progressismi o conservatorismi ormai polverosi e ingombranti. Ha dato
prova di una visione molto avanzata dei problemi che colpiscono la
Chiesa moderna con il motu proprio Summorum Pontificum del 2007, volto a
riagganciare la tradizione del vecchio messale in latino con le
innovazioni conciliari, chiedendo un mutuo arricchimento dei riti. Il
suo stile liturgico è stato altresì un banco di prova e un'opera
innovatrice da non sottovalutare. Papa Ratzinger ci ha abituato a
celebrazioni che non hanno la pesantezza del passato e nemmeno lo
sperimentalismo esasperato di certo postconcilio. Nelle sue Messe a San
Pietro ha recuperato il canto gregoriano e l'organo a canne, prima
alquanto sottotono. Ha anche introdotto una modifica “chirurgica”
all'altare papale, facendo mettere una croce al centro (che a volte
“impalla” anche le inquadrature televisive e distoglie il primo piano
del Papa) per sottolineare la centralità di Cristo nella liturgia e
marcando così le distanze da alcune derive clericocentriche. I tempi, le
azioni sono sembrati molto telegenici e pervasivi (anche il silenzio
prolungato dopo l'omelia ha restituito un maggiore senso del sacro). Del
resto, lo stesso Papa che ha sistematicamente fuggito gli applausi non
ha potuto evitarne uno immenso, lunghissimo, nell'ultima Messa del
mercoledì delle Ceneri dopo l'annuncio delle dimissioni. Benedetto XVI è
stato ad aspettare, pazientemente, ma vedendo che non passava ha preso
il microfono e con quella sua autorità così schiva, e con il solito
self-control, ha detto: “Grazie, torniamo alla preghiera”. Il senso del
pontificato sta tutto in queste poche parole che sanno di una fede
profonda e matura e di una libertà che viene da Cristo.