L’evento
“storico” è avvenuto poche ore fa. Al termine dell’Udienza Generale che
si tiene ogni mercoledì nella Sala Nervi del Vaticano, Benedetto XVI ha
inviato il suo primo “cinguettio” dal profilo Twitter. E lo ha fatto in
una maniera altrettanto inedita, con un “touch” via tablet. Come si sa,
Twitter permette di inviare messaggini che non superino i 140
caratteri, si tratta quindi di un mondo comunicativo limitato alle poche
battute disponibili che, in un certo senso, rimette la parola al
centro.
Brevità
e densità dei messaggi sembrano essere stati i due ingredienti che
hanno convinto Benedetto XVI a sbarcare sul noto social network con un
proprio account (del resto qualche anno fa il popolo di Facebook aveva
indirizzato una petizione al pontefice perché creasse un suo profilo
ufficiale, senza però che ne seguisse alcunché). La scelta di Twitter,
come suggerito dallo staff vaticano che ha curato l’operazione, sembra
rispondere quindi ad una precisa opzione comunicativa. Il testo
inaugurale, inviato ad un milione di followers, è molto semplice: “Cari
amici, è con gioia che mi unisco a voi, grazie per la vostra generosa
risposta, vi benedico di cuore”. Il Papa chiama “amici” i propri
followers, accettando la terminologia per così dire paritaria
dell’universo Twitter ed evitando espressioni più ufficiali e
gerarchiche. Non fa riferimento a Dio, ma lo lascia per così dire tra le
righe, nel sottotesto, concludendo con l’espressione “vi benedico di
cuore”. È un esempio interessante di quella che potremmo definire una
“pastorale” elettronica del Papa applicata al cyberspazio. Ma cosa
cambia da oggi?
In
realtà, più che nei contenuti, è nello stile che possiamo azzardare
delle risposte. Dall’invenzione della stampa a oggi, i Papi e la Chiesa
hanno mostrato sempre un dualismo di fronte ai “new media”. Quando,
nella metà del Quattrocento, l’invenzione di Gutenberg gettò le basi per
una rivoluzione della società europea, da orale che era (dovuta alla
lentezza del manoscritto e al diffuso analfabetismo) a visiva
(tipografica, alfabetizzata e quindi individualizzante, come dimostrano
le ricerche fondamentali di Habermas e McLuhan), la reazione fu di due
tipi: da un lato si apprezzò il progresso tecnico, dall’altro fu
inaugurata una stagione preventiva e repressiva per evitare lo
sganciamento etico della comunicazione, ovvero l’indiscriminata licenza
di scrivere e pubblicare quel che si voleva. Inutile dire che la
battaglia era persa in partenza, perché, a prescindere da quel che si
scriveva, era la stessa tecnologia a creare un nuovo tipo di individuo e
di società che Lutero interpretò in pieno. Tant’è che l’iniziale
diffidenza dei cattolici nel polemizzare con i riformatori via stampa
subì una drastica inversione sul finire dell’Ottocento, quando Pio IX e
più ancora Leone XIII approvarono la strategia di opporre “scritti a
scritti”, sancendo di fatto la piena assimilazione dei cattolici nella
cultura tipografica-democratica europea ormai imperante. Sembrava il
trionfo del visivo. Ma una nuova rivoluzione si stava preparando.
McLuhan,
grande sociologo dei media e grande credente convertito, ha considerato
la Chiesa in termini assai singolari secondo la prospettiva del suo
determinismo tecnologico, che ha suscitato così tanto scalpore negli
anni Sessanta ma che oggi sembra piuttosto dimenticato nonostante
l’esattezza delle sue previsioni. La Chiesa cattolica sarebbe una
derivazione del mondo semitico, quindi tribale e orale, incastonata, o
per meglio dire ingabbiata come una tartaruga nella corazza del pensiero
greco-romano. Insomma un ibrido provvidenziale di oralità e visivo, con
differenti fasi di predominio di una eredità sull’altra a seconda delle
epoche storiche. Così, dall’uomo visivo rinascimentale, derivò una
Chiesa ancora più gerarchica e “calda”, cioè specializzata al suo
interno in unità che ne consentirono la sopravvivenza. Ma ecco, scrive
McLuhan, “irrompere oggi il mondo elettronico di tipo acustico, che è
istantaneo e simultaneo, pronto a formare delle vaste unità globali di
risonanza (come i social network, ndr). Esso ignora ogni
specializzazione, ogni frammentazione, ogni logica. Sotto
quest’invasione, la cultura greco romana non è in grado di resistere ed è
in via di rapida dissoluzione, in modo brusco e improvviso, cosicché
noi ci troviamo coinvolti in una crisi incredibile. La Chiesa vede le
proprie strutture culturali slittare sotto i suoi piedi”. La storia
insomma sembra invertire segno oggi in Europa con l’avvento del
digitale, che al contrario dalla città estraniante dell’epoca moderna
ripropone un “villaggio globale”, o meglio un’esistenza totale, ad alta
velocità di relazione tra le persone.
Che
senso ha allora l’ingresso di Benedetto XVI su Twitter? Senza dubbio è
un altro passo oltre il vecchio paradigma, di incredibile importanza. È
stato Giovanni Paolo II il primo Papa a far uso di Internet in chiave
pastorale inviando, il 22 novembre 2001, la prima e-mail della storia.
Erano passati solo 8 anni dalla nascita sociale della Rete (avvenuta di
fatto con l’invenzione di Mosaic, il primo programma per navigare nel
web dopo l’introduzione del protocollo http da parte dello scienzato
Timothy Berners-Lee). Oggi Benedetto XVI ha inviato il suo primo “twitt”
a soli cinque anni di distanza dal boom dei social network, quando
Facebook nel 2007 è passato dalla sessantesima alla settima posizione
dei siti più visitati del mondo. Tempi di reazione, come si vede, molto
dinamici e rapidi, al contrario dei vecchi cliché che vedevano gli
ecclesiastici in preda a sindromi di lentezza insopportabile. La
scommessa è stucchevole nella sua semplicità: traghettare la Chiesa
dall’era moderna a quella post-moderna, o, detto in altri termini,
passare dal visivo specializzante e gerarchico all’orale comunitario e
globalizzante. L’incipit di Benedetto XVI è promettente in tal senso,
con il suo linguaggio paritario, per niente ufficiale, immediato e, in
definitiva, parlato, proprio come un vero twitt. Esistono tuttavia dei
rischi non secondari da prendere in considerazione. Innanzitutto, la
Chiesa è un intreccio provvidenziale di visivo ed orale, quindi sarà
sempre necessario mantenere un equilibrio per evitare che si ripetano
processi dolorosi (quale, nel ‘500, la separazione protestante per via
del libro stampato, quando la periferia della cattolicità europea, già
modernizzata, entrò in conflitto con il centro papale, ancorato al
retaggio orale del manoscritto e quindi in un certo senso ancora
medievale e tribale). In secondo luogo, molto dipenderà dallo stile di
Benedetto XVI e dall’accettazione o meno delle regole di Twitter.
Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, ha accolto la tesi
secondo cui “Il Papa è su Twitter ma non ‘segue’ nessuno e dunque non
rispetta le regole di una comunicazione adatta ai networks sociali”,
giustificando tale comportamento come consono ad una figura
istituzionale. Questa però è solo una parte della faccenda. Tale prassi
potrebbe infatti significare che siamo in una fase preliminare di
presenza pastorale del Papa su Twitter; oppure potrebbe voler dire che
la discesa nell’areopago digitale sta avvenendo in maniera cosciente ed
avvertita, senza dimenticare le basi teologiche del flusso comunicativo
in seno alla Chiesa cattolica (fattore, questo, che potrebbe essere
addirittura stimolante nel configurare nuovi modi di intendere la Rete).
Del resto Benedetto XVI ha arricchito il suo Magistero di così tante
esperienze dialoganti che sarebbe prematuro giudicare una simile prassi
come anacronistica o verticistica. Più di ogni altra considerazione
rimane il gesto di concreta solidarietà ed il segno profetico di
vicinanza all’uomo di oggi, persino all’homo interneticus. (Dopotutto il
papa ha scelto come account la parola Pontifex, cioè, etimologicamente,
colui che costruisce nuovi ponti…)