mercoledì 12 dicembre 2012

Il primo “twitt” di Benedetto XVI, svolta o boomerang?

L’evento “storico” è avvenuto poche ore fa. Al termine dell’Udienza Generale che si tiene ogni mercoledì nella Sala Nervi del Vaticano, Benedetto XVI ha inviato il suo primo “cinguettio” dal profilo Twitter. E lo ha fatto in una maniera altrettanto inedita, con un “touch” via tablet. Come si sa, Twitter permette di inviare messaggini che non superino i 140 caratteri, si tratta quindi di un mondo comunicativo limitato alle poche battute disponibili che, in un certo senso, rimette la parola al centro.


  Brevità e densità dei messaggi sembrano essere stati i due ingredienti che hanno convinto Benedetto XVI a sbarcare sul noto social network con un proprio account (del resto qualche anno fa il popolo di Facebook aveva indirizzato una petizione al pontefice perché creasse un suo profilo ufficiale, senza però che ne seguisse alcunché). La scelta di Twitter, come suggerito dallo staff vaticano che ha curato l’operazione, sembra rispondere quindi ad una precisa opzione comunicativa. Il testo inaugurale, inviato ad un milione di followers, è molto semplice: “Cari amici, è con gioia che mi unisco a voi, grazie per la vostra generosa risposta, vi benedico di cuore”. Il Papa chiama “amici” i propri followers, accettando la terminologia per così dire paritaria dell’universo Twitter ed evitando espressioni più ufficiali e gerarchiche. Non fa riferimento a Dio, ma lo lascia per così dire tra le righe, nel sottotesto, concludendo con l’espressione “vi benedico di cuore”. È un esempio interessante di quella che potremmo definire una “pastorale” elettronica del Papa applicata al cyberspazio. Ma cosa cambia da oggi? In realtà, più che nei contenuti, è nello stile che possiamo azzardare delle risposte. Dall’invenzione della stampa a oggi, i Papi e la Chiesa hanno mostrato sempre un dualismo di fronte ai “new media”. Quando, nella metà del Quattrocento, l’invenzione di Gutenberg gettò le basi per una rivoluzione della società europea, da orale che era (dovuta alla lentezza del manoscritto e al diffuso analfabetismo) a visiva (tipografica, alfabetizzata e quindi individualizzante, come dimostrano le ricerche fondamentali di Habermas e McLuhan), la reazione fu di due tipi: da un lato si apprezzò il progresso tecnico, dall’altro fu inaugurata una stagione preventiva e repressiva per evitare lo sganciamento etico della comunicazione, ovvero l’indiscriminata licenza di scrivere e pubblicare quel che si voleva. Inutile dire che la battaglia era persa in partenza, perché, a prescindere da quel che si scriveva, era la stessa tecnologia a creare un nuovo tipo di individuo e di società che Lutero interpretò in pieno. Tant’è che l’iniziale diffidenza dei cattolici nel polemizzare con i riformatori via stampa subì una drastica inversione sul finire dell’Ottocento, quando Pio IX e più ancora Leone XIII approvarono la strategia di opporre “scritti a scritti”, sancendo di fatto la piena assimilazione dei cattolici nella cultura tipografica-democratica europea ormai imperante. Sembrava il trionfo del visivo. Ma una nuova rivoluzione si stava preparando. McLuhan, grande sociologo dei media e grande credente convertito, ha considerato la Chiesa in termini assai singolari secondo la prospettiva del suo determinismo tecnologico, che ha suscitato così tanto scalpore negli anni Sessanta ma che oggi sembra piuttosto dimenticato nonostante l’esattezza delle sue previsioni. La Chiesa cattolica sarebbe una derivazione del mondo semitico, quindi tribale e orale, incastonata, o per meglio dire ingabbiata come una tartaruga nella corazza del pensiero greco-romano. Insomma un ibrido provvidenziale di oralità e visivo, con differenti fasi di predominio di una eredità sull’altra a seconda delle epoche storiche. Così, dall’uomo visivo rinascimentale, derivò una Chiesa ancora più gerarchica e “calda”, cioè specializzata al suo interno in unità che ne consentirono la sopravvivenza. Ma ecco, scrive McLuhan, “irrompere oggi il mondo elettronico di tipo acustico, che è istantaneo e simultaneo, pronto a formare delle vaste unità globali di risonanza (come i social network, ndr). Esso ignora ogni specializzazione, ogni frammentazione, ogni logica. Sotto quest’invasione, la cultura greco romana non è in grado di resistere ed è in via di rapida dissoluzione, in modo brusco e improvviso, cosicché noi ci troviamo coinvolti in una crisi incredibile. La Chiesa vede le proprie strutture culturali slittare sotto i suoi piedi”. La storia insomma sembra invertire segno oggi in Europa con l’avvento del digitale, che al contrario dalla città estraniante dell’epoca moderna ripropone un “villaggio globale”, o meglio un’esistenza totale, ad alta velocità di relazione tra le persone. Che senso ha allora l’ingresso di Benedetto XVI su Twitter? Senza dubbio è un altro passo oltre il vecchio paradigma, di incredibile importanza. È stato Giovanni Paolo II il primo Papa a far uso di Internet in chiave pastorale inviando, il 22 novembre 2001, la prima e-mail della storia. Erano passati solo 8 anni dalla nascita sociale della Rete (avvenuta di fatto con l’invenzione di Mosaic, il primo programma per navigare nel web dopo l’introduzione del protocollo http da parte dello scienzato Timothy Berners-Lee). Oggi Benedetto XVI ha inviato il suo primo “twitt” a soli cinque anni di distanza dal boom dei social network, quando Facebook nel 2007 è passato dalla sessantesima alla settima posizione dei siti più visitati del mondo. Tempi di reazione, come si vede, molto dinamici e rapidi, al contrario dei vecchi cliché che vedevano gli ecclesiastici in preda a sindromi di lentezza insopportabile. La scommessa è stucchevole nella sua semplicità: traghettare la Chiesa dall’era moderna a quella post-moderna, o, detto in altri termini, passare dal visivo specializzante e gerarchico all’orale comunitario e globalizzante. L’incipit di Benedetto XVI è promettente in tal senso, con il suo linguaggio paritario, per niente ufficiale, immediato e, in definitiva, parlato, proprio come un vero twitt. Esistono tuttavia dei rischi non secondari da prendere in considerazione. Innanzitutto, la Chiesa è un intreccio provvidenziale di visivo ed orale, quindi sarà sempre necessario mantenere un equilibrio per evitare che si ripetano processi dolorosi (quale, nel ‘500, la separazione protestante per via del libro stampato, quando la periferia della cattolicità europea, già modernizzata, entrò in conflitto con il centro papale, ancorato al retaggio orale del manoscritto e quindi in un certo senso ancora medievale e tribale). In secondo luogo, molto dipenderà dallo stile di Benedetto XVI e dall’accettazione o meno delle regole di Twitter. Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, ha accolto la tesi secondo cui “Il Papa è su Twitter ma non ‘segue’ nessuno e dunque non rispetta le regole di una comunicazione adatta ai networks sociali”, giustificando tale comportamento come consono ad una figura istituzionale. Questa però è solo una parte della faccenda. Tale prassi potrebbe infatti significare che siamo in una fase preliminare di presenza pastorale del Papa su Twitter; oppure potrebbe voler dire che la discesa nell’areopago digitale sta avvenendo in maniera cosciente ed avvertita, senza dimenticare le basi teologiche del flusso comunicativo in seno alla Chiesa cattolica (fattore, questo, che potrebbe essere addirittura stimolante nel configurare nuovi modi di intendere la Rete). Del resto Benedetto XVI ha arricchito il suo Magistero di così tante esperienze dialoganti che sarebbe prematuro giudicare una simile prassi come anacronistica o verticistica. Più di ogni altra considerazione rimane il gesto di concreta solidarietà ed il segno profetico di vicinanza all’uomo di oggi, persino all’homo interneticus. (Dopotutto il papa ha scelto come account la parola Pontifex, cioè, etimologicamente, colui che costruisce nuovi ponti…)