C’è un punto cruciale del discorso che Papa Francesco ha indirizzato ai luterani riuniti a Lund, per la commemorazione dei 500 anni della Riforma, lo scorso 31 ottobre. È la constatazione che il concetto di “sola gratia” non appartiene e non deve appartenere unicamente al mondo protestante, ma è parte essenziale anche della teologia cattolica. “Con il concetto di ‘solo per grazia divina’ – così Bergoglio – ci viene ricordato che Dio ha sempre l’iniziativa e che precede qualsiasi risposta umana, nel momento stesso in cui cerca di suscitare tale risposta. La dottrina della giustificazione, quindi, esprime l’essenza dell’esistenza umana di fronte a Dio”. Solo questo elemento basterebbe per targare come storico il viaggio in Svezia appena concluso. Mai, in effetti, un Papa si era espresso con tale franchezza e apertura a proposito di uno dei punti critici della Riforma luterana. Ma Francesco è andato anche oltre.
Ha riconosciuto infatti che “la Riforma ha contribuito a dare maggiore centralità alla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa”. L’opera di Martin Lutero, quindi, è stata rivalutata proprio nei suoi punti più controversi e da sempre dibattuti. Ma è stata anche inserita, o meglio finalmente reinserita, in un discorso e in una visione cattolica più ampi. Il capolavoro di Bergoglio è proprio questo. Non si è limitato ad accettare alcuni elementi della teologia luterana per una specie di compromesso, ma li ha finalmente inglobati nella cornice della Chiesa, superando quella rigidità che ha sempre ridotto il protestantesimo a orfano della Riforma e cogliendone gli elementi positivi. Inoltre il Papa ha dato una forte tensione sociale al suo discorso (ha parlato soprattutto della cura per il creato e del servizio preferenziale verso i poveri), suggerendo così che la “sola gratia” non può restare un’esperienza soggettiva e sentimentale, ma è chiamata a vivere delle opere concrete e storiche, ha bisogno di incarnarsi. Correzioni impercettibili a prima vista, ma che in realtà sono un immenso tentativo di riunificazione dell’edificio della fede, lacerato dalle incomprensioni di 500 lunghissimi anni e troppo a lungo congelato da sterili divisioni. Una riforma della Riforma, in un certo senso. A una lettura attenta, la correlazione tra questi due punti, cioè la grazia (e quindi la misericordia divina) e l’impegno verso le periferie del prossimo, rappresenta il percorso esistenziale e il bagaglio teologico di Jorge Mario Bergoglio. Ma nel discorso di Lund c’è anche una perfetta ermeneutica storica della Riforma. La divisione, ha affermato il Papa, “è stata storicamente perpetuata da uomini di potere di questo mondo più che per la volontà del popolo fedele”. In effetti la Riforma ha segnato il paradigma assimilazionista per antonomasia della fede nei confronti del potere politico. Privato dell’intelaiatura della Chiesa, il credo cristiano diventa facile preda del potere politico e dello Stato, che di fatto va a sostituirsi alla Chiesa stessa. Il Papa ha rimarcato che la grande colpa non è stata tanto questo o quel punto teologico, in quanto la vita della Chiesa è piena zeppa di dispute ferventi, in un certo senso sono nel suo DNA e ne esprimono la vitalità (John Henry Newman non a caso le definiva “collisioni croniche”). Certamente gli errori di Lutero rimangono e il concilio di Trento continua ad essere un caposaldo. Ma il grande errore è stato l’aver diviso l’unico Corpo di Cristo, aver fatto sì che l’incomprensione e la chiusura prendessero il sopravvento. E quindi è chiaro che su questo punto si gioca l’identità e la credibilità del cristianesimo di oggi: “Insieme possiamo annunciare e manifestare concretamente e con gioia la misericordia di Dio, difendendo e servendo la dignità di ogni persona. Senza questo servizio al mondo e nel mondo, la fede cristiana è incompleta”.