mercoledì 10 settembre 2025

L'inizio di Papa Leone. Alla ricerca dell'aggettivo perfetto. (Ma forse è un tranello)

Diceva qualcuno che la Chiesa non ha una strategia geopolitica, semplicemente perché, a dispetto di qualsiasi attore geopolitico, non ha un centro, ma è per definizione “universale”. Aveva ragione. Io aggiungerei che, a differenza di qualsiasi attore geopolitico, manca di un altro requisito fondamentale per sembrar tale: non ha una politica in senso proprio, in quanto la sua missione è di tipo “ultrapolitico”, cosa questa che la vede operativa su un livello completamente diverso e che solo di riflesso può avere una ricaduta “mondana”. Eppure, in questi quattro mesi di nuovo pontificato, i famigerati fiumi di inchiostro o di caratteri digitali sono scesi a valanga, descrivendoci con paroloni sopraffini complicate collocazioni geopolitiche internazioni intracuriali sinodali episcopali movimentiste, che vedrebbero la Catholica inserita nell'agone mondiale come un “impero” (proprio così) travagliato al suo interno e in cerca di punti di appoggio e di espansione nei confronti di Stati e culture. Peccato che la Chiesa osservata con tali lenti “laiche” risulti irrimediabilmente deformata come una caricatura di Forattini. Se poi passiamo ai tentativi, interni ad alcuni media ecclesiali, di catalogare in fretta l'inizio del nuovo pontefice col desiderio malcelato di vedere riconosciuti temi o ecclesiologie per le quali si battaglia da tempo, allora la situazione è ancora più tremenda. Fanno sorridere analisi del tipo: “ritorno al cristocentrismo”, “fine dell'ambientalismo”, “progressismo conservatore” e acrobazie simili. Si aspetta il “ruggito del Leone”, un atto eclatante che renda etichettabile una volta per sempre Papa Prevost. In realtà, penso che valga anche oggi quello che scrissi dodici anni fa, quando su Papa Francesco si stava addensando una cortina di nubi nere come la pece con la volontà di ostacolarne la missione profetica. Un papa non ha bisogno di un'etichetta o, peggio ancora, di un aggettivo che lo contraddistingua perché non può essere ridotto a ciò. Un papa, scusate la tautologia, è un papa. Come avrebbe notato Bergoglio, il cui pensiero qui riporto, la nostra cultura non accetta più i sostantivi (me ne rendo conto anch'io quando mi metto a scrivere), cioè la sostanza buona delle cose, il loro essere profondo. Si cominciò con quest'andazzo settant'anni fa con Giovanni XXIII, il papa “buono”; quindi con Paolo VI, il papa “intellettuale”; poi a seguire Albino Luciani, il papa “del sorriso”; e Giovanni Paolo II, il papa “carismatico”; per arrivare a Benedetto XVI, il “custode della fede”. Qualche aggettivo o etichetta si mangi il sostantivo lo si troverà sicuramente anche per Leone XIV, ma un papa sarà sempre, innanzitutto, un papa, e come tale, il punto di aggancio con il fondamento della vita della Chiesa: Gesù Cristo, la sua vera identità divina, la sua missione di salvezza per l'umanità, la sua morte in croce per noi e la sua risurrezione gloriosa. In poche parole, il kerygma costitutivo dell'Ecclesia. Se non si pensa a questo, se si postula che la Chiesa sia, in fin dei conti, un “potere” del mondo alla ricerca di un posto al sole, allora si scivolerà a dismisura sulle bucce di banana finendo col raccontare qualcosa che non esiste nella realtà. Tutto ciò non esclude, ovviamente, la diversità dei pontefici, dal punto di vista caratteriale, teologico e pastorale, beninteso. A tal proposito, ciò che più mi ha stupito di Papa Prevost in questi mesi sono molte cose: il suo carattere cordiale, la sua preparazione su Sant'Agostino, rivelatoci in una declinazione nuova rispetto a quella che conoscevamo da Ratzinger, il suo porsi in maniera mite ma ferma, il linguaggio profondo ma accessibile, che molto attrae i giovani. E soprattutto il suo essere un papa essenziale. Ecco, finalmente ci sono cascato anch'io con l'aggettivo.