sabato 11 aprile 2020

Pasqua: quando Dio scende e risale

Cari amici e lettori del blog, voglio augurarvi una Buona Pasqua con questo mio post, sperando che dia un pizzico di speranza in un tempo di prova che due mesi fa non avremmo mai immaginato. Anche se non si può andare a Messa, Dio consola e raggiunge in un altro modo il popolo che si è acquistato "a caro prezzo". E certamente non sarà un virus a tenerci lontano da Lui. Questi giorni, complici una lettura di San Paolo e un versetto di San Giovanni, ho guardato alla Pasqua da un'angolatura "privilegiata", per così dire, quella di Dio.
Ovviamente non è una mia scoperta. Ad esempio, San Tommaso ha fatto di questo punto prospettico (troppo spesso dimenticato oggi per il suo "oggettivismo" metafisico) il cardine della sua ineguagliata teologia parlando di exitus e reditus (un uscire e un tornare a Dio del Verbo incarnato, così come della nostra esistenza). Nel mio piccolo, senza scomodare il Dottore Angelico, che comunque rimane a confermarmi la bontà dell'intuizione, cercherò di ragionarci prendendo in primo luogo come spunto un passo del Vangelo di Giovanni: "Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava" (Gv 13,3). Il contesto è quello della lavanda dei piedi, che è come un riassunto della missione di Gesù dal momento della sua incarnazione. Egli ha deposto le vesti (allusione al suo spogliarsi della gloria divina) e si è messo a servire gli uomini. Questo concetto di "spoliazione" e abbassamento viene espresso con un altro linguaggio da quel bellissimo inno che veniva cantato dai primi cristiani e che San Paolo inserì nella sua lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11). Leggiamolo:

Egli [Cristo], pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l'essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall'aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
"Gesù Cristo è Signore!",
a gloria di Dio Padre.

Si tratta di un gioiellino di teologia ante litteram, o meglio di fede pasquale professata dalle prime comunità cristiane, espressa con un linguaggio semplice, che cerca di sintetizzare quella che fu la storia terrena di Gesù, il suo mettersi in fila tra gli uomini, la sua morte in croce e la sua glorificazione da parte del Padre nel giorno della resurrezione. Siamo lontani dal concilio di Calcedonia del 451, che definirà con raffinato linguaggio filosofico le due nature di Cristo (divina e umana) conviventi nella stessa persona senza distinzione, separazione mutamento e confusione. Eppure in questo abbozzo arcaico di cristologia, composto su ispirazione al punto da divenire esso stesso Rivelazione, abbiamo già tutto di quel grande mistero e insieme del movimento divino di discesa e risalita. Si dice che Cristo “pur essendo nella condizione di Dio”, cioè pur essendo Dio (si parte già da una cristologia dall’alto, Cristo è Dio: siamo nella stessa lunghezza d’onda del prologo di San Giovanni, che è molto più tardo), in un certo senso esce da questo status (“svuotò se stesso” ha sostanzialmente un significato analogo al “verbo si fece carne”). Scende, si fa piccolo, e assume una condizione umana. Quel Dio entra nella nostra storia come un uomo, arriva a morire e perdipiù in croce, in piena obbedienza al disegno di salvezza del Padre. C’è un chiaro riferimento al servo sofferente, quel personaggio misteriosamente prefigurato dal profeta Isaia sul quale si sarebbe accumulato tutto il male del mondo perché ne portasse, da solo, il peso e lo distruggesse. La croce è, potremmo dire, la fase di massimo abbassamento di Dio, una discesa inesausta fino al buio più nero che possiamo immaginare: non solo tutto il peccato che ognuno ha commesso nella propria vita, non solo il peccato di tutti gli uomini di tutte le epoche che sono stati commessi e verranno commessi dall’inizio alla fine della storia. Ma anche il male fisico, che è strettamente concatenato al male morale, viene a concentrarsi con il suo peso inaudito sulle spalle del Crocifisso. Cioè tutte le sofferenze materiali, le povertà, le malattie, le angosce degli uomini e addirittura di tutti gli esseri viventi creati da Dio, che sono stati trascinati, loro malgrado, in questo mondo ferito a causa del peccato originale. Mai come in questo momento storico ci siamo accorti della sofferenza delle innumerevoli specie di animali, pesci e piante a causa del nostro dissennato inquinamento. Mai come oggi abbiamo la coscienza sporca per le estinzioni che mettono la parola fine alle bellissime creature dell'ecosistema terrestre, volute e pensate da Dio fin dall'eternità. La croce è un’oscurità totale, che solo un Dio può sopportare. Il grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, citazione dal Salmo 21, indica a mio parere questo dramma incomprensibile per noi, di un Dio che è diventato peccato, e sul quale si è oscurato il volto del Padre, come un sole che continuava a brillare dietro le nuvole (il Salmo in questione è proprio un’attestazione di fede da parte del Giusto che implora e ottiene la salvezza). È un dolore straziante e peraltro eterno, perché è il dolore di un Dio, Gesù appunto, che sempre lo porterà con sé, unito alla gioia dell’obbedienza al Padre e della salvezza donata a tutti gli uomini. La croce è anche il segno più potente che Dio ci ha dato del suo amore indistruttibile e definitivo verso l'umanità. Ovviamente ci troviamo in uno di quei vertici della fede cristiana, in quei segni-limite che non riusciremo mai a sondare compiutamente, tanto il mistero di Dio è grande e infinito, ma abbiamo comunque qualcosa a cui aggrapparci, che ha la stessa profondità dell'amore. La croce ha anche un valore educativo: Dio non ci salva dal dolore, ma nel dolore. E così sappiamo che la sofferenza di chiunque non si perderà nel nulla di un mondo privo di senso e di direzione, ma avrà una sua resurrezione, verrà trasformata in gioia in quel giorno senza tramonto in cui, tornati al Padre, non ci sarà più né pianto né lutto e anche le stelle gioiranno. La storia dell’arte ha genialmente rappresentato questa dimensione con gli "alberi della vita" avvolti da tantissimi elementi del mondo naturale, fiori, piante, uccelli, a significare che la morte di Cristo profuma di novità e la croce è il nuovo ingresso al paradiso perduto. L’inno sul quale stiamo meditando esprime il momento della resurrezione con quel secco “Dio lo esaltò”. È il movimento della risalita. Dopo l’abbassamento, ora è tutta una “scalata” verso l’alto. Il Nome di Gesù è “al di sopra di ogni altro nome” e tutti sono invitati a dire (o meglio a cantare) che “Cristo è Signore”, cioè Cristo è tornato alla sua gloria, ma non alla stessa maniera di prima. L’incarnazione è stato un evento irreversibile, non una parentesi: ora il Verbo siede alla destra del Padre come vero Uomo oltre che vero Dio, portando con gioia i segni della sua passione.

Buona Pasqua e un saluto a tutti!